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Usa 2016, l’impronta di Obama sulla campagna elettorale

Una cosa sull’esito delle elezioni america­ne si può dire già adesso, quando mancano ancora quasi 18 lunghi mesi al loro svolgi­mento. Negli ultimi vent’anni, a dominare la scena elettorale Usa sono stati temi come l’economia, la guerra, il terrorismo e, con l’elezione di Obama, di nuovo l’economia. Il prossimo (o la prossima) presidente degli Stati Uniti dovrà confrontarsi con un tema ben più radicale: la società americana come la conosciamo tradizionalmente noi e i valori su cui si fonda l’epopea della più antica democrazia esistente e del Paese più ricco e prosperoso del pianeta. Obama ha lentamen­te ma costantemente provato ad affermare un nuovo paradigma.

Le cose che non vanno negli Stati Uniti, è in sintesi il pensiero del presidente, sono il frutto di un’evoluzione della società ameri­cana che negli ultimi quarant’anni è andata nel verso sbagliato, mentre tutti pensavano invece che andasse in quello giusto. Obama crede che l’America oggi soffra di gravi pia­ghe: un livello di ineguaglianza sociale ed economica non solo senza precedenti, ma anche pericoloso per la tenuta stessa della società americana; una versione del capitalismo perversa, che anziché fungere da mol­tiplicatore di ricchezze per tutti, ha contri­buito a distruggere la scala mobile sociale del sogno americano (diventare da poveri a ricchi in una generazione); l’inaccessibilità dei migliori college e scuole di formazione per chi non dispone di redditi elevati; una peri­colosa recrudescenza del razzismo, in cui le recenti uccisioni di ragazzi neri da parte di poliziotti bianchi è solo la parte più visibi­le; l’incapacità dell’America di dialogare con il mondo, perché lo sforzo verso il consensus building è stato rimpiazzato con il tentativo di egemonia, perdendo la simpatia e l’appoggio di alleati e amici tradizionali.

L’America che il presidente Obama vede dai suoi occhi è quindi un Paese che – al di là del ciclo economico – è in profonda crisi strutturale, da riformare, orientato a valori diversi – e ben peggiori – di quelli che ispirarono i pa­dri fondatori. Chi lo dipinge come un uomo che “non ama il proprio Paese” ne fa una caricatura dettata dall’astio, ma è certo che il presidente è fortemente critico verso l’A­merica e pessimista per il suo futuro. Obama ha saputo mettere un’energia straordinaria al servizio di un’agenda concepita proprio per cercare di minare da subito i ponti verso l’abisso sul quale il senatore dell’Illinois vede­va l’America incamminarsi.

Specie nel primo mandato – sull’onda dello straordinario successo alle elezioni e poten­do contare su un team fortemente dedicato e il pressoché totale appoggio dei media – il presidente è riuscito a portare a termine la storica riforma sanitaria. Su altri temi, come il diritto costituzionale a portare armi, non è riuscito ad andare fino in fondo, ma ha condotto una battaglia di idee durissima. Analogo insuccesso Obama l’ha registrato nella battaglia contro la Corte suprema e la decisione di consentire dona­zioni in denaro illimitate ai cosiddetti super Pac, organizzazioni formalmente slegate dai partiti, ma finanziatrici di colossali campa­gne pubblicitarie su grandi temi identifica­tivi delle campagne elettorali di questo o quel presidente.

In questo scenario, i repub­blicani, e in Congresso anche i democratici, hanno seguito più che guidato il dibattito. Il Grand old party ha sofferto una strabiliante mancanza di leadership. È rimasto afono della voce di una guida carismatica e rappresen­tativa che potesse quanto meno dibattere su temi di fondo così importanti nella defi­nizione delle politiche di lungo termine. Si ha come l’impressione che i repubblicani abbiano perso trazione con la maggioranza del Paese e siano ancorati a un sistema di idee apprezzato solo dall’elettorato tradizio­nale, ma non da quelle diverse minoranze che, sommate insieme, hanno consentito ai democratici di conquistare la Casa Bianca nel 2008 e di mantenerla nel 2012.

Il grande tema sullo sfondo della campagna elettorale e dell’America dopo il 2016 sarà quindi quel­lo dei valori fondanti su cui si è retta per due­cento anni. Non è stato grazie a una pianificazione o a un sistema di leggi che gli Stati Uniti sono cresciuti fino a diventare la prima potenza mondiale. Le enormi ricchezze cre­ate da singoli individui non sono state frut­to di un disegno politico. L’immigrazione, la capacità di inventare, l’attrazione tuttora fortissima verso i giovani di tutto il mondo, non derivano da piani governativi plurien­nali. Le armi circolano in America dall’epoca della sua fondazione: sono state date ai citta­dini per difendersi dall’eventuale insorgere di un governo tiranno, non sono frutto di legislazioni miopi.

La storia dell’America si è snodata più come una forza centripeta che sfida la gravità, piuttosto che come un siste­ma guidato da prìncipi illuminati o da abili pianificatori. Gli americani sono abituati ad accettare il male e il bene, la gioia e la soffe­renza, purché derivino da una situazione in cui vi sia l’opportunità di riscattarsi, di so­gnare e di ottenere l’inimmaginabile. Hanno attribuito le loro fortune e le loro sfortune alle proprie capacità, piuttosto che al siste­ma. Non hanno mai pensato che sia giusto ricevere tutto dallo Stato. Hanno sempre am­mirato chi ha avuto successo, prendendolo ad esempio. Nel bene e nel male, sta tutta qui l’eccezionalità americana.

Ma Obama, in questo molto simile a un leader della sinistra europea, ha messo in discussione proprio il Dna di questa eccezionalità. Il presidente del principale think tank conservatore, Arthur Brooks, ha detto recentemente che “capi­talismo, socialdemocrazia, socialismo sono solo sistemi, sono il motore di una macchi­na. Il vero punto è come quella macchina viene guidata”, cioè dagli uomini e donne (non solo il governo) che vivono in quel Pa­ese. Obama suggerisce che invece potrebbe occorrere una riflessione proprio su quale macchina scegliere. E, per adesso, il pallino della discussione sta nelle mani degli “ultra­liberal” che la pensano come il presidente.

Simone Bemporad, direttore Relazioni esterne di Assicurazioni Generali e adjunct fellow presso il Center for strategic & international studies (Csis)

Articolo tratto dal numero 104 (Giugno 2015) della rivista Formiche

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