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Cina, bolla finanziaria e bollori complottistici

Mentre l’attenzione europea è focalizzata sulle ricadute della vicenda greca, la più importante Borsa cinese – forse del mondo – è andata in caduta verticale. Lo Shanghai Composite Index, che traccia per l’appunto l’andamento della Borsa di Shanghai, era crollato (a martedì) di uno spettacolare 29% dal suo picco a metà giugno, accumulando secondo l’agenzia Bloomberg perdite per “almeno” 3,2 trilioni di dollari—oltre dieci volte le dimensioni del buco greco.

Nel tentativo di fermare il crescente panico, le autorità – sempre martedì – hanno sospeso dagli scambi altri duecento titoli, portando il totale di quelli non più trattati a 745, il 26% di tutte le società cinesi quotate e l’equivalente di circa il 21% dell’intera capitalizzazione delle diverse borse del Paese.

L’impossibilità di vendere i titoli sospesi ha certamente limitato le perdite – se non altro perché, senza un prezzo ufficiale, non possono essere contabilizzate – ma al tempo stesso gli investitori sono molto poco inclini a mettere soldi in altre azioni ancora trattate che potrebbero improvvisamente non più essere scambiabili.

Il weekend scorso – il 4 luglio – un gruppo di 21 grandi operatori di borsa cinesi si sono impegnati a creare un fondo di supporto del valore di 120 miliardi di yuan ($19,3 miliardi) per stabilizzare i prezzi. Il mercato non è sembrato oltremodo impressionato, probabilmente perché gli scambi quotidiani s’avvicinano invece ai due trilioni di yuan. I pur apprezzabili miliardi hanno avuto lo stesso effetto del tentativo di spegnere un incendio boschivo a sputi.

Ora, nella notte (europea) tra martedì e mercoledì – poco fa, in altre parole – gli argini sono crollati. Le autorità borsistiche cinesi hanno intanto, d’emergenza, quasi raddoppiato le sospensioni dalle trattazioni di ancora altri titoli. Sono ora circa 1.200, approssimativamente la metà di quelli quotati. Il Governo ha ordinato alle compagnie statali di comprare azioni, ha aumentato la quantità di titoli che le compagnie di assicurazioni possono acquistare e ha promesso di continuare a fornire liquidità a credito agli investitori.

Per tutta reazione – almeno finora – è crollata anche la Borsa di Hong Kong, fino ad oggi toccata solo marginalmente dal fenomeno. L’indice Hang Seng stamattina aveva perso il 7,7%, avendo toccato il meno 8,3% nel corso della seduta. Shanghai ha perso un altro 5,4%. La Cina avrebbe già identificato gli untori responsabili del disastroso crollo: i perfidi americani, soprattutto nella persona della banca d’affari Morgan Stanley, che si è permessa in una nota agli investitori di ritirare il suo giudizio positivo sulle prospettive del mercato azionario cinese dopo il forte calo dell’indice dello scorso 26 giugno, quando Shanghai ha perso il 7,4% nel corso di una sola seduta.

Un commento editoriale del China Financial News, l’organo ufficiale dell’unione delle banche cinesi, accusa gli operatori Usa di avere prima fatto schizzare in alto i titoli per poi liquidarli allo scopo di “ostacolare le riforme economiche in Cina”. È molto umano incolpare “esterni” di un tipo o l’altro per i propri problemi, ma purtroppo non è risolutivo. Durante il crac Lehman del 2008 si è parlato di istituti di credito “too big to fail”. Cominciamo a intravedere la circostanza di istituzioni finanziarie invece “troppo grandi da salvare”. Per Mr. Tsipras e la Grecia—improvvisamente ai margini—si stanno chiudendo le tasche del mondo.


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