Si può dire che, pur tra molti distinguo e con alcune eccezioni, l’interpretazione prevalente sul caso greco sia quella basata sulla contrapposizione fra la formica e la cicala. Non poche volte è risuonato, inoltre, il richiamo all’etica del capitalismo di Max Weber, che molti di noi hanno imparato a conoscere negli anni del liceo. Come stupirsi, allora, che una popolazione educata da generazioni al rispetto assoluto delle regole abbia alla fine avuto il suo scatto di orgoglio? Che sia quindi giunta a riconoscersi unanimemente nell’opzione Grexit, alla fine prospettata da un esasperato ministro Schäuble? Nell’auspicio più generale che la lezione alla Grecia sia d’insegnamento per l’opinione pubblica europea.
Dobbiamo tuttavia chiederci se questa visione di recuperata moralità possa essere sostenuta in termini di analisi economica: in altre parole, se osservassimo le odierne vicende europee avendo come i riferimento i principi della teoria economica e non della morale, arriveremmo alle stesse conclusioni?
Per rispondere, cominciamo con l’analizzare il significato del grafico 1. In esso si dà visione di come, nel tempo, l’apprezzamento per la moneta unica sia andato crescendo nei paesi del Nord relativamente a quanto osservato nei paesi del Sud. Un primo balzo di questo indicatore si osserva prima della metà degli anni duemila, in coincidenza con l’allargamento a Est dell’Unione a cui, di fatto, è corrisposto un ampliamento della sfera di influenza tedesca. Il secondo momento di rialzo dell’indicatore coincide, invece, col progressivo avanzare della crisi dell’euro. Di fatto, secondo i dati riportati nel Rapporto 1/2015, il 52 per cento dei tedeschi è oggi molto favorevole alla moneta unica; una quota che scende al 40 per cento in Francia, al 36 per cento in Spagna, al 28 per cento in Grecia e Portogallo, al 22 per cento in Italia. Da cosa nasce questa divaricazione?
Una possibile interpretazione, la si ritrova nel grafico 2, ancora tratto dal nostro Rapporto 1. Come si osserva, esisterebbe una correlazione statisticamente significativa fra i livelli della disoccupazione e il grado di apprezzamento per la moneta unica: tanto più alto il primo, tanto più basso il secondo. La visione “moralistica” ci direbbe, a tal riguardo, che le cicale mediterranee, incapaci di riformare le proprie economie negli anni di prosperità, attribuiscono all’euro il prolungarsi della crisi e la caduta di benessere determinata dall’aumento della disoccupazione. Tuttavia, anche ammettendo che questa lettura possa spiegare la disaffezione dei paesi del Sud, come motivare la crescente affezione dei paesi del Nord? In altre parole, come mai le formiche dell’Eurozona non manifestano insoddisfazione verso una moneta unica sempre più minata dai tentativi di azzardo morale delle cicale?
La risposta, ci sembra, sta nel fatto che la Germania ha tratto e trae enormi benefici dalla crisi dell’euro. Non dal suo dissolvimento, si badi bene, ma da una situazione di protratta instabilità che da una parte esalti i fenomeni di flight to quality che abbiamo visto all’opera nel corso degli ultimi quattro anni e dall’altra consenta di disinnescare i normali meccanismi di riequilibrio macroeconomico. Quest’ultimo punto è cruciale. Si consideri il grafico 3, dove è riportata la differenza fra il tasso di disoccupazione effettivo e il Nawru. A partire dal 2010, ossia in coincidenza con l’avvio della crisi dell’euro, la curva scende al di sotto dello zero, il che dovrebbe segnalare l’avvicinarsi di condizioni di piena occupazione e, di conseguenza, l’accumulo di latenti tensioni salariali. Una situazione a cui si arriva in virtù di un incredibile livello di surplus corrente, che secondo le stime delle organizzazioni internazionali raggiungerebbe addirittura l’8,5 per cento alla fine dell’anno in corso: un livello, tanto per dare un termine di paragone, due volte e mezzo superiore a quello cinese.
Ora, a fronte di una tale situazione i meccanismi di stabilizzazione macroeconomica impliciti nelle funzioni di reazione delle banche centrali richiederebbero, già da tempo, un aumento dei tassi di interesse, un apprezzamento del cambio e un riassorbimento del surplus estero.
Grazie alla moneta unica questi meccanismi non hanno mai operato, dal momento che il valore dell’euro è rimasto al di sotto del valore teorico che il marco avrebbe assunto in presenza di avanzi correnti di tali dimensioni. Ma è con la crisi dell’euro che i meccanismi di stabilizzazione macroeconomica vengono, per la Germania, definitivamente aggirati e anzi invertiti. Da un punto di vista generale, perché la crisi ha generato deflazione all’interno dell’Eurozona e ciò ha sopito le latenti tensioni salariali sul mercato del lavoro tedesco; da un punto di vista più specifico, perché grazie alla crisi la Germania beneficia di tassi di interesse storicamente bassi e di un forte deprezzamento del cambio nei confronti degli Stati Uniti e di altre aree. Il risultato è, appunto, l’ulteriore aumento del surplus commerciale che, di fatto, sta alimentando in Germania una vera e propria “bolla manifatturiera”. Certo, bolla fondata su una solida morale: non però quella weberiana, e neppure quella kantiana, bensì quella mercantilista. Ossia la morale di una politica economica non cooperativa che individua la fonte della ricchezza economica nelle esportazioni e che per conseguirla non esita a comprimere i salari reali e comunque non trasferisce ad essi che in minima parte gli aumenti di produttività del lavoro. In un’area valutaria in cui, per definizione, non sono possibili recuperi della competitività di prezzo basati su riallineamenti del cambio, una politica mercantilista agisce come un devastante rullo compressore sulle economie meno competitive, sgretolandone la capacità produttiva a tutto beneficio dell’ulteriore rafforzamento del comparto manifatturiero della potenza mercantilista.
Ci soccorre, in questa lettura, l’analisi svolta da Sergio De Nardis che, in un contributo di prossima pubblicazione , ricorda come la Germania si caratterizzi, non solo nel confronto con i paesi più industrializzati, ma soprattutto in riferimento alle “leggi dello sviluppo economico”, per una quota troppo elevata del settore manifatturiero. L’originalità dell’analisi di De Nardis sta nel rilevare come questo fenomeno, anche se originato da fattori positivi come uno shock sulla produttività (che rientra pienamente nella metafora della formica), può protrarsi nel tempo solo perché la politica economica tedesca opera deliberatamente al fine di “spegnere gli interruttori del riequilibrio”. Il riferimento specifico di De Nardis è alla sistematica violazione di quella che è al contempo una condizione di equilibrio microeconomico e di massimizzazione microeconomica: l’uguaglianza fra le variazioni dei salari e della produttività. Nel modello tedesco, in particolare nel settore manifatturiero, le prime sono invece costantemente conservate al di sotto delle seconde, con l’esplicito obiettivo di accumulare avanzi commerciali (e dal momento che questi surplus sono disavanzi altrui, è chiaro che qui stiamo entrando in una diversa “favoletta morale”, quella del lupo e dell’agnello…). Alimentare la crisi dell’euro, che come abbiamo visto consente di spegnere gli “interruttori” del riequilibrio macroeconomico, rientra nella stessa logica.
Allo stesso risultato concorre lo spostamento della narrazione sulla crisi dal terreno suo proprio, quello di crescenti squilibri delle bilance dei pagamenti entro un’area valutaria, a quello di una crisi da debito pubblico. Questo shift non soltanto apre la strada alla favoletta morale della formica e della cicala, ma, più concretamente, ha legittimato quale priorità di policy nei paesi in crisi un severo aggiustamento di bilancio: col risultato di impedire politiche anticicliche, ed anzi di forzare politiche direttamente procicliche che hanno colpito severamente la domanda interna dei paesi interessati sui due lati dei consumi privati e degli investimenti pubblici. Ben diversamente aveva reagito la Germania alla propria recessione negli anni 2008 e 2009, facendo di un imponente piano di intervento economico con fondi pubblici a presidio del settore manifatturiero (69 miliardi di euro) e per il salvataggio del sistema bancario nazionale (259 miliardi di euro, 646 incluse le garanzie) l’architrave della strategia di recupero del prodotto interno lordo perduto nei primi anni della crisi. Anche questo dato di fatto viene annegato nella narrazione della formica e della cicala.
Secondo i principi della razionalità economica, la Germania ha insomma un forte incentivo a conservare condizioni di instabilità nell’area della moneta unica. È questo il vero azzardo morale che sta esacerbando la crisi nell’eurozona, rendendola l’area a minor crescita del pianeta e accentuando la divergenza economica tra i paesi che ne fanno parte, con effetti potenzialmente dirompenti sulla stessa tenuta dell’area valutaria. È un aspetto che andrebbe tenuto assai più in considerazione rispetto ad approcci di natura moralistica, che non paiono in grado di spiegare le dinamiche economiche dell’Eurozona.