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Chi borbotta per l’accordo Usa-Iran sul nucleare

Sembrerebbe che il complesso negoziato tra il Gruppo 5+1 e la Repubblica islamica dell’Iran sul contenzioso nucleare abbia trovato una composizione positiva annunciata il 14 luglio dai media mondiali.

La prudenza non è tanto sull’accordo, ma sulla difficile implementazione dato che contro la sua effettività lavorano già molti soggetti: in primis Israele che è contrario ad ogni accordo, l’Arabia Saudita avversario tradizionale d’area e contrapposto sunnita allo sciismo iraniano, il Congresso degli Stati Uniti, dove le lobby ebraiche contano forse più di quelle industriali attratte da un mercato di oltre 80 milioni di anime, già occidentalizzato peraltro, e la Turchia la cui multivettorialità della politica estera ha dato ultimamente qualche segno di ambiguità.

Molti fattori sostanziali hanno rallentato e frenato questo percorso nel foro interno: lo shock americano del sequestro degli ostaggi durante la Rivoluzione islamica nei lontani anni 1979-80, ma anche al processo di consolidamento della stessa repubblica teocratica che si vede subito coinvolta in una guerra terribile con l’Iraq e soprattutto con quasi tutto il resto del mondo a fianco del crudele regime di Saddam Hussein. Ma anche questo oramai ha quasi trent’anni dietro di sé.

C’è una situazione attuale che deve essere considerata ed un cammino, sempre molto difficoltoso, che ha visto Teheran a fianco dell’Occidente, in modo neanche tanto ambiguo o dissimulato: dall’inizio avversari dei Taliban, che tra l’altro assaltarono il consolato generale iraniano di Mazar el Sharif, retto da Abolfazl Zhorevand poi ambasciatore a Roma; preferenze commerciali costanti durante le presidenze Rafsanjani, Khatami ed anche Ahmadinejad per Francia, Italia e Germania; fiero avversario del movimento di Osama bin Laden, al Qaeda, e non solo in virtù del contrasto Shia-Sunna; attivo oppositore dell’Isis con operazioni militari dirette e coperte sul territorio per contrastarne la avanzata, al punto di diventare un necessario partner naturale dell’Occidente e del mondo arabo moderato; un sistema parlamentare-presidenziale che sino alla rottura di Ahmadinejad nel 2009 aveva mostrato un’altra interessante forma di convivenza tra elezioni quasi democratiche del Majlis e principio di prevalenza degli esperti di diritto islamico, i “velajat-e faqih”.

Che l’Iran abbia da tempo abbandonato l’idea degli anni di Khomeini dell’esportazione della rivoluzione, cercando di ampliare la sua influenza regionale sulle consistenti minoranze-maggioranze sciite nei Paesi del Golfo e della Mezzaluna fertile, è spiegato da molti analisti. Come lo è il supporto dato al libanese Hezbollah e, in misura minore, al palestinese Hamas per ragioni direi di inerzia ideologica più che per reale convinzione pragmatica. Le primavere arabe ed i disordini di Istanbul hanno alquanto sorpreso gli iraniani che ne hanno tratto lezioni utilissime al prosieguo dei rapporti col mondo arabo e musulmano circostante.

Che l’Iran – con iniezioni di truppe fuori dai confini nazionali al comando del generale al-Suleymani, di armi e di pasdaran – abbia contribuito ad assestare colpi significativi per il contrasto all’avanzata dell’Isis è anche evidente a molti servizi segreti.

Che la popolazione iraniana, ed in particolare i giovani con meno di trent’anni, la maggioranza, viva già da anni nella disillusione politica ed in modo definito come post-moderno ed anche post-islamico, è anche un fatto facilmente riscontrabile trascorrendo qualche giorno a Teheran, a Isfahan o a Tabriz. Le esperienze delle presidenze Khatami ed il movimento verde di Mousavi hanno segnato un solco profondo tra il regime e la popolazione, mentre il balance of power, tra majlis e guida spirituale, si è sempre più spostato verso quest’ultima, con sostanziale occupazione del potere economico da parte del clero militante, dei pasdaran e di una ristretta élite vicina all’ayatollah Khamenei.

Già nel settore dei trasporti, che vede l’Iran in procinto di ammodernare la rete ferroviaria con acquisti massicci di vagoni merci e passeggeri e di locomotori (si parla di oltre 50mila unità), si erano mossi entro i limiti delle sanzioni il nostro Paese, la Francia e la Germania: si tratta di tecnologie mature di media resa economica e non particolarmente sensibili.

Inoltre tanti progetti, sino ad ora rinviati per ragioni geopolitiche e di sicurezza (come il passaggio di oleodotti e soprattutto di gasdotti dal lato orientale del Caspio all’Azerbaijan, il quale può mettere in campo il BTC e il gasdotto Baku-Erzurum), destinati a “liberare” il gas estratto in Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan, oltre che a veicolare lo stesso oil&gas iraniano, potrebbero trovare una sicura realizzazione che conferirebbe grandi vantaggi comparati alle risorse del Caspio.

Inoltre la classica presenza italiana, i prodotti commerciali e del gusto che tanto sono apprezzati in Iran, potrebbero trovare un rinnovato impulso: penso al settore dei profumi e delle essenze, richiestissime.

Ma ci sono anche i prodotti industriali intermedi che erano caduti sotto la mannaia delle sanzioni: ricordo una media impresa italiana, la Borri di Arezzo, che produce gruppi elettrici di continuità, utili per centri ospedalieri come per sistemi informatici. Essa aveva un grande, importante mercato in Iran (Teheran ridistribuiva anche nei difficili Paesi circostanti) e subì un significativo crollo delle vendite.

Ci sono anche gli appetiti dei grandi gruppi americani arroccati a Dubai e a Doha, ma che aspettano il momento di tornare ad agire in quel mercato, non meno degli europei: McDonald’s, oppure le case automobilistiche che vorrebbero competere con gli asiatici, o ancora un gruppo chimico medio-grande come Ecolab. Tutti a scalpitare per poter entrare, hanno già cominciato ad addestrare forze di vendita di origine iraniana fortemente presenti nei Paesi del Golfo.

E la Turchia? Già ai tempi del conflitto Iran-Iraq Ankara commerciava sia con Baghdad sia con Teheran, alla insegna di un sano pragmatismo mercantile. Nel corso del tempo gli iraniani hanno con curiosità, ma anche con diffidenza, guardato alle tendenze neo-islamiche e neo-ottomane dello Akp di Erdogan. Né hanno mancato di rilevare i solchi tracciati dal governo verso la popolazione, e non solo verso quella laica e filo-kemalista.

L’asse Russia-Siria-Iran ha poi disegnato un’ampia cesura in quello che Ankara, con la “stratejik derinlik” di Ahmet Davutoglu, aveva riconfigurato come rapporto privilegiato con Damasco. E vediamo tutti oggi come la situazione sia divenuta precaria, con sospetti malcelati che la Turchia di Erdogan per aver voluto sostenere gli avversari di Bashar al-Assad abbia, almeno all’inizio, finito per sostenere anche l’embrione di quello che in seguito è divenuto lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.

La Turchia, dopo le elezioni parlamentari di giugno che hanno sancito alcuni limiti politici dello Akp, si trova di nuovo in una fase di transizione e di difficoltà, che ha anche di molto rallentato lo sviluppo economico. Anche sulle neo-repubbliche turcofone dell’Asia centrale il nuovo modello turco di Erdogan-Davutoglu ha perso molto smalto e fatto crescere le diffidenze reciproche. Dopo una iniziale fase di buoni affari, specialmente per le imprese edili turche, la varie cancellerie ad Ashgabat, Astana e Tashkent hanno limitato gli scambi temendo una “corruzione” politico-religiosa delle loro realtà identitarie post-sovietiche di tendenza laica.

E l’Unione Europea oramai sembra un miraggio lontano, con tutti gli effetti negativi che la crisi greca ha evidenziato negli ultimi mesi, anche in modo drammatico, tanto che un numero sempre maggiore di turchi pensa che stare fuori dalla Ue, ma avere con questa un rapporto privilegiato, sia molto meglio che divenirne un improbabile membro.

La Turchia guarda con un certo sospetto ed un evidente imbarazzo al rientro sul mercato e nella Comunità internazionale dell’Iran, dove vi è anche da innovare tutto il sistema bancario e delle comunicazioni telefoniche, al netto dei criteri di sicurezza nazionali di Teheran che sinora non ha mai ceduto su questi fronti. Ma vis à vis di un aumento irruente delle transazioni i passaggi sopra auspicati diventeranno ineludibili.
L’Italia potrebbe essere un partner credibile e affidabile: durante la sua campagna elettorale il presidente Hassan Rouhani disse che “ci legano tantissimi fattori e che siamo come fratelli che ogni tanto disputano su alcune questioni per poi ritrovare subito una buona concordia”. Potrei anche citare il pensiero del filosofo e diplomatico Hossein Moghaddam che sosteneva da sempre come la vera “cerniera” tra Occidente ed Asia fosse l’Iran e non la Turchia.

Quest’ultima teme una crescita economica e commerciale dell’Iran, una sua maggiore assertività politica ed una ingerenza negli affari interni turchi, in modo diretto o indiretto. Insomma l’evoluzione dei prossimi mesi ed anni mostrerà una maggiore diffidenza tra Ankara e Teheran: quest’ultima si presenta, nonostante quanto evidenziato sopra, come più compatta nella traiettoria di politica internazionale scelta. Il distacco tra le élite governative e la popolazione è di natura profondamente diversa in Turchia ed Iran, quest’ultimo si presenta molto più stabile.

Oltre alla guida spirituale Ali Khamenei, anche il presidente del majlis Larijiani, predecessore di Rouhani come alto negoziatore per il nucleare, il sindaco di Teheran Ghalibaf, la cui meteora non è ancora scomparsa, e larga parte dell’universo dei bazarì e delle loro potenti organizzazioni, che tanto contribuirono al successo del progetto khomeinista, sono a fianco di questa importante svolta della Repubblica Islamica.



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