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Ecco perché gli italiani sono (forse troppo) intelligenti

Articolo tratto da Nota Diplomatica

L’idea di paragonare il quoziente d’intelligenza medio delle singole nazioni è talmente ovvia che si continua a farlo anche quando il bon ton attuale – il “politically correct” – considera poco elegante parlare dei risultati. L’Italia figura estremamente bene nella classifica, al quarto posto nell’intero mondo.

È la nazione più “intelligente” dell’Occidente, preceduta in classifica solo da tre Paesi asiatici: Singapore al primo posto, seguito dal Sud Corea e dal Giappone. Il Regno Unito è al 7° posto – come anche la Cina – la Germania all’ottavo, la Francia al nono, a pari merito con gli Usa. La Russia è in decima posizione.

La classifica è stata inizialmente redatta nel 2002 dallo psicologo britannico Richard Lynn e il finlandese, Tatu Vanhanen, uno studioso di scienze politiche, sulla base dei risultati dei test di massa del quoziente intellettivo utilizzati in 113 Paesi. È stata poi revisionata e allargata dallo psicologo olandese Jelte Wicherts.

Emerge, per quanto senza tanta evidenza guardando solo in cima alla classifica, un chiaro rapporto tra reddito nazionale e intelligenza. Alla sua uscita la ricerca è stata criticata proprio per questo, partendo dal dubbio che siano forse i soldi a rendere i popoli intelligenti e non l’intelligenza a farli arricchire. Fosse così, le attuali condizioni economiche dell’Italia tenderebbero dunque a dimostrare che gli abitanti della Penisola siano “smart” per conto proprio ed evidentemente squattrinati per semplice iella.

Esiste però un’altra ipotesi, antecedente alla ricerca moderna. L’economista inglese Walter Bagehot (1826-1877) – più noto per essere tra i primi e più importanti direttori dell’Economist – non aveva una grande stima della vivacità mentale dei suoi connazionali, ma considerava la loro “lentezza” una virtù dal punto di vista politico. Nel suo Letters on the French Coup d’État scrive infatti, senza ironia: “Ritengo che la qualità mentale più essenziale per un popolo libero, la cui libertà dev’essere progressiva, permanente e su larga scala, sia una buona dose di stupidità”.

Dopo avere paragonato il livello intellettuale dell’Impero Romano (“il grande popolo politico della storia”) a quello della Grecia antica – a danno dei primi, che comunque avevano assoggettato i greci – passa a osservare che “Ciò che chiamiamo con obbrobrio ‘stupidità’… è la risorsa preferita della natura per conservare la risolutezza di comportamento e la coerenza d’opinione”. “Una ‘giusta stupidità’, spiegava, protegge un uomo dai difetti del suo carattere. È lento a eccitarsi. Le sue passioni, sentimenti e affetti tardano ad accendersi, ma sono forti e stabili… Si sa sempre dove trovare la sua mente. Ecco, questo è esattamente ciò che, nella politica almeno, non si può sapere di un francese”.

Bagehot non offre commenti sugli italiani, un popolo forse troppo intelligente per il suo stesso bene.


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