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Ecco la visione strategica che serve all’Italia. L’intervento di Sergio Mattarella

Signore e Signori,

desidero anzitutto ringraziare il ministro degli Esteri per le calorose parole di benvenuto e per l’invito che mi ha rivolto a inaugurare la XI Conferenza degli Ambasciatori, anche per me si tratta della prima a cui partecipo in questa veste.

LE FOTO DELLA CONFERENZA DEGLI AMBASCIATORI

Sono molto lieto dell’opportunità anche perché mi consente – per il tramite del Segretario Generale della Farnesina e delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori qui presenti – di rivolgere un messaggio di saluto e di apprezzamento all’intera rete diplomatico-consolare, il cui lavoro acquista importanza sempre crescente per l’immagine del Paese, per l’impostazione delle sue relazioni politiche ed economiche, per le ricadute sociali e culturali in un mondo sempre più interdipendente, accompagnando e facilitando le relazioni dirette tra capi di Stato, di governo e ministri degli Esteri.

Anche nei primi mesi del mio mandato ho potuto constatare la professionalità e la dedizione con cui il personale del Ministero degli Esteri svolge i propri compiti, talvolta correndo rischi personali molto alti, come in occasione del recente attentato contro la Cancelleria consolare italiana al Cairo o come nella prolungata lodevole apertura della sola nostra Ambasciata a Tripoli. Un personale spesso chiamato ad affrontare delicatissime questioni umane e di sicurezza; ad esempio il rapimento di connazionali in aree di crisi, l’ultimo dei quali una settimana fa in Libia.

A questo proposito intendo ribadire il massimo impegno di tutti noi per restituire alla libertà e all’affetto dei propri cari i quattro tecnici italiani rapiti: Filippo Calcagno, Salvatore Failla, Fausto Piano e Gino Pollicardo. E l’impegno italiano resta massimo anche nei confronti di padre Paolo Dall’Oglio, sequestrato in Siria nel luglio 2013.

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Signore e Signori,
rappresentare l’Italia all’estero è una missione resa oggi ancora più impegnativa dalle tante incognite che caratterizzano lo scenario internazionale.

Dalla minaccia di Daesh ai sanguinosi attentati terroristici in Francia, Tunisia, Egitto, Kenia, Nigeria e altrove. Dalla crisi russo-ucraina, che chiama l’Europa a una responsabilità equilibratrice, ai flussi di profughi e di migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, cui l’Europa non sempre riesce a dare un risposta all’altezza della propria civiltà. Dai conflitti in Siria e in Iraq al collasso delle istituzioni in Libia e Yemen, all’instabilità del Corno d’Africa e dell’area sub-sahariana, ci troviamo a operare in un contesto globale in cui assumono peso allarmante le forze del “disordine”, con grave pregiudizio per il rispetto dei diritti individuali e delle minoranze e con un sensibile decadimento del valore della centralità della persona umana, che resta la ragione e il fondamento del diritto interno e internazionale.

Questi gravi fattori di crisi accompagnano i mutamenti geopolitici, seguiti alla fine del mondo bipolare, e la grande redistribuzione di risorse, di poteri, di influenze, scaturita anche dalla globalizzazione dei mercati e della finanza. Ciò che accade a Bagdad, o in Nigeria, o nel Mediterraneo, non è estraneo a questi cambiamenti epocali, e neppure alle povertà e alle nuove emarginazioni determinate dal nostro tempo.

Ma proprio per questo non è accettabile l’atteggiamento rassegnato e fatalista che a volte prevale nelle istituzioni multilaterali, nei governi e nelle opinioni pubbliche, di fronte a una strage, a una pulizia etnica, a una repressione per motivi religiosi. Non possiamo rassegnarci all’impotenza, al distacco politico e morale che rischia di classificare come “normali” e “ineluttabili” fatti drammatici, che richiedono invece una adeguata reazione morale e politica.

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Occorre alzare lo sguardo oltre la contingenza. Abbiamo bisogno di ideali e di visione strategica, capaci di attrarre e conquistare consensi, di stati e di società civili, se non vogliamo che le relazioni internazionali, ed anche l’ordine economico e sociale, siano determinate dalle sole ragioni del mercato, talvolta senza regole, e che il contraltare sia rappresentato non dal diritto o dalla politica ma da fanatismi, con il loro potenziale disgregativo.

Costruire un nuovo ordine mondiale, e fondarlo su principi rispettosi della persona e delle comunità, è un’opera paziente, che richiede l’intelligenza della realtà e l’adozione di politiche lungimiranti.

A questo sforzo di approfondimento, di analisi, di elaborazione è chiamato a contribuire ciascuno di voi. Sono preziose la vostra esperienza e la vostra saggezza, così come la vostra capacità di leggere e interpretare gli avvenimenti globali con strumenti aggiornati e una rinnovata indipendenza di giudizio.

Allo stesso tempo è dovere di tutti noi – come suggerisce il tema di questa Conferenza, Diplomazia per l’Italia – ridefinire, adeguandolo costantemente, il profilo dell’interesse nazionale, e dunque della missione del nostro Paese.

Sessanta anni fa, nel 1955, l’Italia veniva ammessa alle Nazioni Unite, consolidando quella vocazione alla pace e al multilateralismo iscritta nella Costituzione repubblicana. Oggi questa vocazione si conferma con la candidatura dell’Italia a un seggio non permanente del Consiglio di Sicurezza per il biennio 2017-2018.

In particolare, è nella nuova Europa che l’Italia ha trovato l’affermazione della sua autentica sovranità: un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per affrontare insieme, come europei, le sfide globali.

Negli anni della Repubblica l’Italia non si è mostrata prigioniera di angusti e malintesi interessi particolari, ma ha agito in coerenza con le scelte poste alla base della propria politica estera, sulle linee della quale registriamo positivamente una ampia base di consenso parlamentare.

Siamo un Paese impegnato nel rispetto dei diritti umani e nella ricerca della pace, della stabilità, della sicurezza, dello sviluppo economico e sociale, come dimostra anche la nostra partecipazione alle principali missioni internazionali: nei Balcani, in Libano o in Afghanistan.

Ancora oggi la capacità di dialogo e cooperazione – sul piano bilaterale, in ambito UE, ONU e NATO – è il motore della nostra politica estera e della nostra presenza negli organismi sovranazionali.

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Desidero, a questo riguardo, rivolgere un ringraziamento particolare a Federica Mogherini, che nel suo ruolo di Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza è stata partecipe attiva dell’accordo di Vienna.

Dopo negoziati lunghi e pazienti si è giunti a una storica intesa sul nucleare iraniano: noi continueremo a impegnarci – e chiederemo di farlo a tutti i principali attori – affinché le intese siano ulteriormente implementate e il processo di distensione produca effetti positivi nell’intero Medio Oriente. Si deve, sollecitamente, rimettere in agenda il tema cruciale del riconoscimento pieno e non reversibile del diritto alla sicurezza di Israele e del diritto all’esistenza dello Stato palestinese.

L’Unione Europea, come noto, non è un’organizzazione intergovernativa: in essa il nostro e gli altri popoli europei hanno scelto la strada dell’integrazione, sulla base dei valori di libertà, di democrazia, di pace. Per questa ragione l’Europa è un ideale, un traguardo storico.

E’ la sola dimensione futura nella quale noi europei potremo essere in grado di partecipare con dignità e protagonismo al mondo globale.

Anche per questo giudichiamo positivamente l’accordo di Bruxelles, che ha scongiurato l’uscita della Grecia dall’euro e il suo fallimento finanziario. Tuttavia, non possiamo nascondere la sensazione dell’affievolimento dei legami di solidarietà che queste settimane hanno drammaticamente evidenziato; legami che sono, invece, indispensabili per sostenere il telaio politico e giuridico dell’Unione.

Non possiamo nasconderla anche perché questa è oggi una percezione diffusa tra i cittadini europei, che colgono la ridotta capacità di progettare il futuro, la difficoltà di generare sviluppo, socialmente equilibrato e inclusivo.

Dobbiamo liberare l’Europa dalla tenaglia che la stringe, tra egoismi nazionali e sentimenti populisti, anch’essi collocati quasi esclusivamente nell’orizzonte interno. L’Unione corre il rischio che il Presidente Napolitano, in un incontro analogo, definiva di inward-looking, di proiezione esclusivamente sui problemi interni, senza porre attenzione al proprio ruolo globale, alle stesse minacce esterne.

Noi – a differenza di altri – diciamo che il progetto europeo è in affanno perché, non da oggi, ha bisogno di rilancio. Noi vogliamo che l’Europa si rianimi. Che sia capace di affrontare la sfida globale. Per questo occorre coraggio, responsabilità, forza innovativa. Ci vuole una visione più grande dei presunti interessi contingenti.

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Occorre anche un forte senso di equità. La democrazia non è storicamente separabile dalla sua dimensione sociale. Il telaio dell’Unione si rafforzerà – dando all’unità monetaria quella necessaria proiezione nell’unione politica – se le scelte concrete dei governi e degli organismi comunitari saranno orientate verso lo sviluppo, gli investimenti, il lavoro, come il Governo italiano ha chiesto nel corso del suo semestre di presidenza europea. Si rafforzerà soltanto se le distanze territoriali e sociali si ridurranno anziché allargarsi, solo se prevarrà uno spirito di collaborazione e di solidarietà nella gestione delle politiche economiche anziché lo scontro tra presunti Paesi di serie A e presunti Paesi di serie B.

L’aria che si respira in questo momento richiama, in qualche misura, l’atmosfera del dopo fallimento della Comunità Europea di Difesa, nel 1954: ebbene, fu per reagire a quella crisi che venne rilanciato l’ideale europeo, con la Conferenza di Messina del 1955 e realizzato, due anni dopo, con il Trattato di Roma. Le difficoltà possono trasformarsi in motivo di avanzamento.

Il compromesso raggiunto in extremis sulla Grecia, paradigma della logica emergenziale europea, sarà insomma virtuoso se diventerà la leva per far uscire l’Europa da questa emergenza, aprendo il cantiere di una nuova governance dell’euro come vero e proprio governo, adeguato e democratico, della moneta unica.

Ha opportunamente osservato il presidente Mario Draghi come i progressi compiuti nei mesi scorsi in termini di maggiore integrazione siano stati importanti, ma non ancora in linea “con le esigenze a lungo termine connesse con l’appartenenza ad una Unione Monetaria”.

Ora alle regole comuni vanno affiancate altre istituzioni comuni, sollecitamente, per evitare di restare in mezzo al guado di una costruzione incompleta, con il forte rischio di scivolare indietro.

“Più Europa” è un obiettivo che appartiene alla categoria delle grandi scelte strategiche, quelle che oggi appaiono difficili e meno popolari, ma che aprono terreni nuovi di sviluppo. L’Italia è protesa verso questo traguardo.

L’Europa è parte irrinunciabile della nostra identità nazionale, anche perché – a volte sembra necessario ricordarlo – l’Europa poggia sul Mediterraneo. “L’Europa intera è nel Mediterraneo” diceva il Ministro degli Esteri Aldo Moro. E’ nel Mediterraneo che l’Europa può giocare carte importanti di attore globale, come promotore e artefice della pace, cogliendo tutte le opportunità di una cooperazione per lo sviluppo e, al tempo stesso, aprire una stagione di collaborazione e di dialogo tra le culture e le religioni. La convivenza, la libertà e le prospettive di sviluppo più equo costituiscono in questo momento storico il crocevia della pace mondiale. E’ una sfida straordinaria, a cui la società civile e gli Stati europei, con i loro ordinamenti, non possono sottrarsi.

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In questo contesto acquistano ancora maggior rilievo il dialogo e la cooperazione con i Balcani. La piena integrazione nell’Unione europea dei Balcani Occidentali resta un obiettivo strategico per il quale il nostro Paese si sente impegnato, con l’auspicio di sollecita apertura o di sviluppo dei relativi negoziati, nei tempi necessari ma con certezza della prospettiva.

La sfida che abbiamo di fronte ci impone di affrontare con umanità e saggezza il tema delle migrazioni e il dramma dei profughi che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni, dalla povertà assoluta.

La disperazione scolpita sui volti di queste persone – spesso giovani, o addirittura bambini – che rischiano la morte su barconi sgangherati, sotto il giogo di spietati trafficanti di esseri umani, interroga la nostra coscienza, e quella dell’intera Europa.

L’Unione europea – è giusto ripeterlo – fa meno di quanto sarebbe suo dovere fare e questo atteggiamento, culturalmente nuovo per molti aspetti, sorprende. Sono alla prova i valori su cui l’Europa si fonda, ma a volte paura ed egoismo prevalgono sulla responsabilità di affermare la indivisibilità di valori come libertà, democrazia, solidarietà.

La decisione dell’Unione di distribuire, seppur su base volontaria, una quota di rifugiati è un primo passo significativo, che salutiamo con soddisfazione, ma sarà un passo importante se ne seguiranno altri nel segno della condivisione. Stiamo parlando di richiedenti asilo, non di semplici migranti. Il carattere umanitario della loro accoglienza non può che prevalere su altre considerazioni.

Diversa, e indubbiamente più complessa, è la questione dei flussi migratori, peraltro quasi sempre provocati da situazioni umanamente insostenibili. La politica dell’immigrazione richiede intelligenza e visione: in gioco ci sono valori, sentimenti di solidarietà, ma anche equilibri economici e sociali. Aiutare chi chiede aiuto, salvare chi sta annegando o è in mano a organizzazioni criminali è un dovere elementare, umanamente irrinunciabile. Governare i flussi migratori richiede risposte articolate, compresa la cooperazione con i Paesi di origine e di transito dei flussi, e la necessaria azione di contrasto contro i trafficanti.

Anche le politiche dell’immigrazione europee dovrebbero tendere verso una certa omogeneità. L’integrazione è un fattore di sicurezza. Le politiche europee, se coerenti, sarebbero anch’esse robusti fattori di sicurezza. Non va dimenticato che da come l’Europa saprà integrare i migranti – anche costruendo percorsi di cittadinanza – dipenderà e non poco la pace e il dialogo con i popoli di provenienza. La democrazia non si esporta con le armi, come è stato dimostrato. La democrazia per affermarsi deve usare la forza della persuasione con il proprio esempio.

Accogliere, per quanto possibile, e aiutare i Paesi da cui nascono i flussi migratori, anche per evitare che questi divengano sempre più imponenti e incontrollabili, è moralmente giusto ed è, inoltre, nell’interesse, immediato e futuro, dell’Europa.

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Del resto, in un’ottica di lungo periodo, va ripensato anche l’approccio europeo verso l’Africa: questo grande Continente può diventare e diventerà, sempre di più, un partner con cui cooperare e condividere strategie e responsabilità, piuttosto che un semplice destinatario di politiche e aiuti altrui.

La conferenza che l’11 e il 12 novembre prossimi riunirà a La Valletta i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, dei Processi di Khartoum e Rabat, nonché la Commissione dell’Unione Africana e dell’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) rappresenta una formula utile e interessante per tentare un percorso più efficace.

Nello scacchiere mediterraneo, la stabilizzazione della Libia è certamente un tassello prioritario per l’Italia, anche per evitare – oltre allo sfruttamento criminale dei flussi migratori – il possibile radicarsi di gruppi terroristici sul suo territorio e – va sottolineato – per ricondurre alla pace interna e alla sicurezza un paese con il quale abbiamo forti e tradizionali legami.

So bene come la diplomazia italiana stia lavorando, al fianco del Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Bernardino Leòn, per tradurre i recenti progressi negoziali in un accordo definitivo, che sancisca la nascita di un governo di unità nazionale.

Sarà comunque opportuno che la comunità internazionale, e l’Unione Europea in particolare, si facciano trovare pronti al fine di garantire il necessario sostegno all’eventuale, nuovo governo. La sua formazione – va ricordato – sarebbe solo il punto di partenza di un impegno che si preannuncia lungo, delicato, complesso, ma indispensabile.

Intorno al Mediterraneo è aperta la terribile sfida di Daesh, l’autoproclamato Stato islamico, incubatore e magnete di terrorismo, portatore di una concezione barbara, che strumentalizza l’Islam a meri fini di potere. Il terrorismo è un buco nero di umanità. Guai a sottovalutarlo, sotto ogni profilo, a partire dalla sicurezza interna. Dobbiamo, tuttavia, fare molta attenzione a condurre nel modo giusto, più adeguato, questa battaglia.
Per prevalere è essenziale infatti impegnarsi con fermezza e determinazione, senza cedere a reazioni emotive e senza rinunciare ai nostri valori, respingendo le pulsioni islamofobiche e la narrazione dello scontro di civiltà tra Occidente e mondo musulmano.

Quella che dobbiamo intraprendere e stiamo svolgendo è una battaglia politica e culturale, prima ancora che militare, contro l’estremismo e il fanatismo, contro chi fomenta divisioni, odio e radicalismo, soprattutto tra le generazioni più giovani, negli ambienti più emarginati. Abbiamo bisogno non di una guerra di civiltà, ma di un “patto di civiltà” che riscopra quell’interazione positiva tra Islam e Occidente che la storia ha già conosciuto. Un’interazione che deve prosciugare i giacimenti di odio e deve provare a definire politiche di sviluppo e principi comuni, a partire dai diritti fondamentali della persona umana, ponendo fine alle persecuzioni per ragioni etniche o religiose come nel caso delle comunità cristiane in Oriente.

L’Italia è a fianco dei Paesi che, sull’altra sponda del Mediterraneo, sono in prima linea nella lotta contro l’oscurantismo e l’inciviltà, per l’affermazione dei valori della vita contro quelli della sopraffazione e della morte.

Anche nella lotta contro il terrorismo internazionale rimane centrale il rapporto transatlantico tra Paesi liberi, caposaldo della nostra politica estera. In un mondo in cui l’Asia e l’America Latina, alla quale ci legano forti elementi di vicinanza, hanno di molto aumentato il loro peso specifico – e bene sta facendo la diplomazia italiana intensificando le relazioni in questi Continenti – la comunità atlantica è in grado di esercitare un ruolo di leadership solo se le due sponde restano unite e mantengono una unità di valori e agiscono secondo logiche cooperative; se si dimostrano capaci – e certamente lo saranno – di offrire una valutazione condivisa delle minacce alla sicurezza internazionale che devono fronteggiare.

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Stati Uniti e Unione Europea, peraltro, hanno davanti a loro un percorso con grande potenzialità, anche di crescita: l’accordo di libero scambio TTIP, che stanno negoziando da tempo e che ci auguriamo possa concludersi al più presto con l’equilibrio necessario. Alle istituzioni europee impegnate nella trattativa va tutta l’attenzione ed il sostegno del nostro Paese.

Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori,
l’Italia ha un vantaggio comparativo molto importante nello sviluppo della sua politica estera. La nostra azione, infatti, può far leva su una “potenza culturale” davvero unica, formatasi sulla storia, l’arte, la bellezza, la creatività, il gusto, l’innovazione, insomma lo stile di vita italiano. Il “Made in Italy” ha grandi capacità, anche economiche, benché sia un soft-power. Da questo punto di vista, la diplomazia italiana è diventata da tempo ormai uno strumento attivo a sostegno del “Made in Italy”, in stretto raccordo con le competenti amministrazioni dello Stato, con le imprese e le loro strutture associative, contribuendo a dare al nostro sistema produttivo un raggio d’azione globale.

Uno dei vettori più importanti per diffondere all’estero la nostra cultura e per promuovere i nostri prodotti, e le nostre mete turistiche, resta comunque la lingua italiana. Le statistiche ci dicono che il numero di studenti di italiano all’estero è in crescita costante tanto che nel 2014 la nostra lingua è risultata la quarta più studiata al mondo. E con la “domanda di italiano” cresce anche la “domanda di Italia”, che merita di essere coltivata e a cui dobbiamo dare risposte positive, cogliendone le grandi opportunità.

L’Esposizione di Milano ha arricchito la nostra immagine nel mondo. Il tema prescelto – Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita – ci ha consentito di approfondire contenuti essenziali per il destino dell’umanità e al tempo stesso di indicare, insieme ad altri, il cambiamento necessario a favore di una cultura alimentare più equa e solidale, e di un nuovo concetto di sviluppo.

La Carta di Milano è ora offerta come contributo all’elaborazione dell’Agenda universale per lo sviluppo, che dovrà incrementare gli Obiettivi del Millennio.
L’Italia non mancherà di spendersi per un esito positivo del vertice Onu di settembre a New York, sullo sviluppo sostenibile, e della Conferenza di dicembre a Parigi sui cambiamenti climatici.

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Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori,

la diplomazia è una risorsa preziosa per l’Italia. Consideratemi sostenitore della funzione istituzionale di rappresentanza dell’intero Paese alla quale assolvete, al fine di promuoverne il ruolo, la sicurezza, l’economia e la cultura.

Il nostro è un Paese pronto a proteggere i propri cittadini e a investire sul loro futuro.

Un Paese, intendo sottolinearlo anche in questa occasione, che continuerà a battersi, con determinazione, affinché Massimiliano Latorre possa restare in Italia e Salvatore Girone vi possa rientrare al più presto.

Continuate nello svolgimento del vostro servizio allo Stato, facendovi anche interpreti di un messaggio di fiducia e di speranza per l’avvenire dell’Italia.

I valori su cui si fonda la nostra Repubblica sono valori di pace, di umanità, di crescita sociale. Possiamo esserne orgogliosi e portarli nel mondo a testa alta. Sappiamo, senza retorica, che vi è bisogno di Italia in Europa e nel mondo.

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