Non essendo un esperto di relazioni internazionali, non sono in grado di esprimere un giudizio compiuto sulla portata dell’accordo stipulato a Vienna tra Stati Uniti (Europa, Cina e Russia) e Iran. Ho tuttavia trovato convincenti ed equilibrate le valutazioni di Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, nella conversazione con Formiche.net, così come quelle di Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi.
Leggendole, mi sono venuti in mente due nomi: John von Neumann e Oskar Morgenstern. Furono loro, un fisico e un economista, a sfornare nel 1944 la teoria dei giochi, la scienza delle decisioni strategiche. Nel 1949 i teorici dei giochi, dopo l’esplosione in Siberia della prima bomba atomica sovietica, suggerirono la strategia dell’attacco preventivo. In un primo momento acconsentì persino Bertrand Russell, in seguito divenuto con Albert Einstein una delle icone del pacifismo.
Nel 1950 fu scoperto il “dilemma del prigioniero”, che descriveva una situazione nella quale due individui cui converrebbe collaborare scelgono di non farlo a causa di una razionale sfiducia reciproca, ma con risultati disastrosi per entrambi. Nel caso degli ordigni nucleari, la soluzione ottimale sarebbe quella di non produrli o usarli, ma il timore che l’altro non rispetti i patti spinge entrambi a violarli. Dunque bisognava attaccare per primi. Il consiglio veniva dai migliori cervelli dell’epoca, ma per fortuna Harry Truman non lo ascoltò.
La teoria dei giochi, al cui sviluppo hanno contribuito “beautiful minds” come John Nash (da poco scomparso), divenne in compenso sinonimo di legittimazione della guerra nucleare. Nel 1984 un giovane e brillante studioso, Robert Axelrod, in un libro subito impostosi all’attenzione del mondo culturale e scientifico anglosassone (“Giochi di reciprocità”), ne ha riformulato i fondamenti, mostrando in quali condizioni può emergere la cooperazione e in quali condizioni essa è vantaggiosa e può continuare a svilupparsi. Cooperazione che può riguardare i negoziati sul disarmo come le transazioni d’affari, la sfera affettiva come quella politica, e così via.
Si è allora scoperto che, appunto a certe condizioni, la fiducia può nascere tra egoisti razionali anche in assenza di un “sovrano” che li obblighi a mettersi d’accordo (è il problema sollevato dal filosofo Thomas Hobbes più di tre secoli fa). Barack Obama ha detto che il documento sottoscritto nella capitale austriaca da Washington e Teheran è basato non sulla fiducia, ma su verifiche rigorose e stringenti. È senz’altro vero, ma scommetto che lui e il suo staff, decidendo di firmarlo, un pensierino alla moderna teoria dei giochi l’hanno fatto.