Il governo greco ha chiesto formalmente l’intervento del Mes (Meccanismo europeo di stabilità). Vorrebbe un prestito triennale (nella lettera non si fanno cifre) e si sottopone per ottenerlo alle condizioni previste da quello che viene chiamato fondo Salva stati. Promette una lista dettagliata di riforme e misure per “assicurare la sostenibilità fiscale, la stabilità finanziaria e la crescita di lungo termine”. Si impegna a tornare entro i tre anni previsti a finanziarsi sul mercato, e di “onorare i suoi obblighi con tutti i creditori pienamente e nei tempi stabiliti”. Dunque niente taglio del debito o allungamento delle scadenze? Infine, ribadisce “l’impegno a rimanere membro dell’Eurozona e di rispettare le norme e le regole di uno stato membro”.
Alexis Tsipras si è piegato, almeno in base a quel che è contenuto nella lettera? Quante parole ha scritto il capo di Syriza e quante ne ha dette. Tante, troppe. Quindi, nessuno si fida più. Questo è il punto, non i quattrini che pure sono molti (7 miliardi come prestito ponte e 30 miliardi nel triennio). La vera questione si chiama fiducia ed è esattamente la legge bronzea del mercato politico oltre che di quello economico (così come, del resto, dell’uomo animale sociale).
Intervenendo al Parlamento europeo il capo del governo greco si è lanciato in un’altra delle sue invettive che tanto piacciono al fronte trasversale tsipriota (o meglio sarebbe chiamarlo marxista-lepenista): la Grecia strangolata dall’austerità, dalle banche, da prestiti usurai (anche se paga la metà dell’Italia che è sempre rimasta sul mercato), con un lamento che alterna pianti a minacce. Ha interpretato la sua parte, beccandosi fischi e applausi. Perfetto esempio della politica spettacolo.
I toni barricadieri che servono a nascondere la lettera firmata con il cappello in mano? Demagogia che non corrisponde ai fatti? A chi bisogna credere al Dr. Tsipras o a Mr. Alexis? E’ il solito dilemma che non sarà risolto almeno fino a domenica. Perché la vera differenza rispetto alla settimana scorsa non è la vittoria del no al referendum, ma che questa volta la Ue ha imposto un termine, otto giorni prima che scada la restituzione di 3,5 miliardi alla Banca centrale europea, cioè la vera campana del default.
Occorre, dunque, aspettare che il governo presenti con dettagli credibili, le sue proposte di politica fiscale e di riforma. Ma soprattuto dobbiamo aspettare che maturi (se maturerà) la consapevolezza che la Grexit avrebbe effetti pensanti, potenzialmente catastrofici sulla credibilità dell’intera Unione europea, come ha ricordato, con insolita eloquenza, Donald Tusk, il polacco che presiede la Commissione e che ieri ha annunciato l’ultimatum.
Se domenica la Ue lascerà aperta la porta, non è automatico che il Mes possa concedere il prestito. Occorre il voto di alcuni parlamenti compreso quello austriaco e, soprattutto, quello tedesco dove tutto può accadere. Allo stato attuale anche in Germania si è stabilito un fronte anomalo tra socialdemocratici e falchi democristiani, per sfruttare l’oggettiva debolezza nella quale si trova Angela Merkel. Insomma, tutto il mondo è paese e in ogni paese si guarda al proprio cortile anziché al resto del mondo.
Se Tsipras riuscirà a passare sotto le forche caudine, il nuovo salvataggio non darebbe alcuna certezza che la Grecia possa rimettersi davvero in piedi. Il risultato principale (e non è poco) è un altro: il crac ellenico verrebbe regredito a caso nazionale, altrimenti sarebbe un evento disastroso a carattere internazionale (e non solo europeo).
Si dice che non siamo come nel 2011. E’ vero. Ma attenzione, rischiamo di stare peggio se la turbolenza cinese fa scoppiare la bolla creditizia che ha fatto correre finora l’Impero di mezzo. Meglio non fare i menagramo, tuttavia dopo il crollo della Lehman Brothers che alcuni ritennero un evento fausto per il capitalismo, l’Occidente non si è mai rialzato per davvero e con le proprie gambe, è stato tenuto in piedi grazie all’Oriente il quale, adesso, ha il fiato corto e sente gli spasmi dello sforzo compiuto.
Dunque, la Grexit non ci farà tirare un sospiro di sollievo, al contrario di quel che pensano i seguaci di Schäuble. Verrà interpretato in Europa e nel resto del mondo come un fallimento. E questa volta non sarà il bubolo dei gufi.
Stefano Cingolani