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L’economia ai tempi dello Zero lower bound: la versione di Weidmann

Poiché l’attualità ormai ci assedia, con le sue narrazioni ripetitive e infine noiose, sono personalmente grato alla Bundesbank che ha organizzato un convegno la settimana scorsa a Francoforte (“Turning points in history: How crises have changed the tasks and practice of central banks”) che ha il duplice merito di riportare l’attenzione sui temi fondamentali del nostro stare insieme, pure nelle versioni specialistiche tipiche dei banchieri centrali, e al tempo stesso di riportare in auge un approccio allo studio dei problemi economici che poggia sulla storia, piuttosto che sull’algoritmo astruso.

Un omaggio, forse, a una gloriosa e ormai dimenticata tradizione di studi socioeconomici che è stata frettolosamente etichettata come scuola storica tedesca, ma che forse dovremmo tornare a frequentare invece di scervellarci appresso alla matematica applicata all’economia, con i suoi omini economici e la sua ossessione per la massima utilità.

In ogni caso vale la pena leggere, di questo convegno, l’intervento introduttivo che vede il governatore della Buba, Jens Weidmann, fare gli onori di casa, interessante soprattutto perché proietta il film della storia sulla nostra misera cronaca, traendone, o almeno questo era l’intento, una lezione assai utile da ascoltare.

Il tema, peraltro, è autenticamente sistemico: in che modo la crisi ha cambiato il ruolo e le funzioni delle banche centrali.

Mi rendo conto che parlare di banche centrali, quando ancora il grande pubblico ha un’idea confusa di cosa siano queste strane entità, rischia di far scivolare il discorso sui sentieri poco confortevoli del sapere specialistico, ma bisogna pur comprendere che sono loro, le banche centrali, assai più dei governi che le esprimono, le protagoniste del nostro evo economicizzato, e questo per precise ragioni storiche.

Il tema si potrebbe sintetizzare così: la crisi ha condotto le banche centrali lungo sentieri inesplorati. L’età dello Zero Lower Bound, che minaccia di durare assai più a lungo di quanto si pensi, sta lentamente cambiando il nostro costume economico ed è giocoforza chiedersi se questo cambiamento investirà anche le BC, che di fatto se non di diritto tale cambiamento hanno voluto e guidato.

Prima della crisi la vulgata assegnava alla banca centrale una linea di azione che si muoveva lungo tre direttive: mantenere la stabilità dei prezzi, l’indipendenza dai governi che le esprimevano, la credibilità che queste entità profondevano per ancorare le aspettative di inflazione. Tali compiti sono quelli che hanno condotto alla scrittura dello statuto che nel 1991 ha fondato la Bce, la più giovane e quindi la più “moderna” fra queste entità.

Adesso altre questioni sono apparse all’orizzonte: quale siano i compiti delle banche centrali in merito alla stabilità finanziaria, visto che più volte le politiche monetarie sono state giudicate incapaci di prevenire la formazioni di bolle speculative. Poi c’è la questione del target inflazionistico. Alcuni economisti ipotizzano che le banche centrali dovrebbero, specie in un’epoca di tassi azzerati aumentare i target di inflazione – in gran parte fissati al 2% – per conquistarsi spazio di manovra per ulteriori accomodamenti monetari. E infine, il più scottante: le banche centrali sono diventati troppo potenti?

Weidmann ricorda che la stabilità finanziaria è stata sempre una delle prime vocazioni delle banche centrali. Quando accanto alle banconote, nel XIX secolo, si iniziò a fare largo uso dei depositi le banche centrali, avvedute circa la rischiosità della riserva frazionale, iniziarono a interessarsi degli effetti sistemici di questa innovazione nella tecnologie di pagamento. Ne derivò l’elaborazione della dottrina dei prestatori di ultima istanza che trovò la sua prima applicazione nella nascita della Fed negli Usa nel 1913, sorta sull’onda emotiva della crisi di panico del 1907. E infatti, ci ricorda ancora, la salvaguardia della stabilità finanziaria fu uno degli obiettivi principali della nuova banca centrale, mentre non figurava in nessun documento la parola inflazione.

Dopo la crisi del ’29, cui il comportamento della Fed non fu estraneo, le banche centrali iniziarono a interessarsi degli obiettivi macroeconomici. Accanto all’obiettivo di inflazione, che fu assegnato sulla scorta delle pesanti deflazioni di quegli anni, spuntò nel caso della Fed anche quello della disoccupazione, mentre l’obiettivo della stabilità finanziaria “scomparve dai radar”, per dirla con le parole di Weidmann.

Quest’ultimo, per quanto si dica contrario a un mandato “dualistico”, quindi stabilità dei prezzi e stabilità finanziaria, ammette che le politiche monetarie non posso farsi da parte quando gli squilibri finanziari iniziano ad emergere. Anche perché “la crisi ha mostrato che la stabilità finanziaria ha impatti sull’inflazione e quindi sulla capacità della banca centrale di salvaguardare il livello dei prezzi”. E’ quindi una questione di prospettiva. Per dirla con le parole di Claudio Borio, capo economista del dipartimento monetario della Bis, citato da Weidmann, “più si rimane concentrati sulla prospettiva di lungo termine, più la stabilità monetaria e quella finanziaria si completano l’un l’altra e meno si contraddicono l’un l’altra”.

Questo spostare la visuale da breve al medio termine è la sfida più difficile che attende le banche centrali, e, soprattutto, i governi che le esprimono.

Quanto poi all’ipotesi che i target di inflazione debbano essere alzati, Weidmann dice con chiarezza che è una mezza eresia, persino in tempi di zero lower bound. Il livello del 2%, messo a base dei trattati istitutivi, spiega, è quello più coerente coni modelli macroeconomici che le banche utilizzano, anche quando è in atto uno ZLB. Anche perché “più alti target di inflazione aumentano il costo dell’inflazione per il welfare”.

Weidmann, e con lui molti, è convinto che il basso tasso di inflazione dipenda dall’andamento erratico e modesto della crescita, non da fenomeni monetari, e quindi giocoforza l’attenzione dovrebbe rivolgersi sulle riforme strutturali capaci di sbloccare la produttività, piuttosto che su altri allentamenti monetari. E anche qui viene citata la Bis, che nell’ultimo rapporto annuale ha esortato a rimpiazzare il “modello di crescita basato sul debito che ha funzionato come un sostituto politico e sociale delle riforme per aumentare la produttività”.

“Questo è il vero argomento a favore di una politica che alzi il target di inflazione”, molto più cogente del tanto discusso orrore germanico per l’inflazione. “In tal senso – dice – è molto istruttivo andare a guardare la Germania di cento anni fa”.

Dopo la fine della prima guerra mondiale, ricorda, la Germania era pesantemente indebitata e per finanziare il crescente servizio del debito la banca centrale iniziò a stampare moneta, col risultato che esplose l’iperinflazione. All’inizio della guerra un dollaro valeva 4,2 marchi, nell’autunno del 1923 era arrivano a 40 miliardi e prima che la moneta fosse stabilizzata, quindi nel novembre del ’23, era arrivato a 4,2 trilioni di marchi.

Ciò dovrebbe aiutarci a capire una caratteristica della psicologia tedesca che si tende a sottovalutare: non è l’inflazione che spaventa i tedeschi, ma l’indebitamento eccessivo, del quale l’inflazione è solo una conseguenza. E ciò aiuta a inquadrare meglio le recenti cronache sulla Grecia, di cui Weidmann parla, ma solo di sfuggita.

Di sicuro aiuta a caire perché la Bundesbank abbia così a cuore la stabilità monetaria, anche nei difficili periodi vissuti negli anni ’70, quando l’inflazione raggiunse l’incredibile (per i tedeschi) livello del 5%, a fronte del 14% del nostro paese.

Rimane la questione su quale sia il ruolo che sia ragionevole aspettarsi dalle banche centrali per il futuro. Il timore di Weidmann, neanche troppo celato, è che agli stati torni la voglia di mettere le mani sulle proprie banche centrali. E il punto, ancora una volta, è squisitamente ordoliberale. Le banche centrali non devono farsi carico di risolvere problemi politici, come ad esempio garantire la solvibilità delle banche greche. Tocca ai governi.

Il problema è che i governi sono in bancarotta.

Ma questo Weidmann, molto signorilmente, non lo dice.


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