Per una volta mi sia consentito di non parlare di Roma e del suo sindaco Ignazio Marino (“nomen omen”: somiglia ormai al pesce che cerca testardamente di risalire la corrente del fiume che rischia di travolgerlo). Né di parlare del Matteo numero 1 (Renzi), che vuole ridurre le tasse ma non le società partecipate degli Enti locali; e del Matteo numero 2 (Salvini), che vuole ripristinare il sevizio di leva obbligatorio, forse anche per difendere meglio l’Italia dall’invasione degli immigrati. E nemmeno di quel pasticcione levantino che si chiama Yanis Varoufakis, icona dei Fassina domestici, scoperto con le mani nel sacco delle sue ridicole trame contro la Merkel.
Mi sia invece consentito di parlare di un piccolo fatto di cronaca, in apparenza trascurabile, ma che dovrebbe farci riflettere tutti. L’altro giorno i carabinieri sono intervenuti in un canile fatiscente di Gessate, in provincia di Milano, dove si era consumata una odiosa e terribile mattanza di cuccioli. Ora, gli uomini oppressi forse non sempre hanno ragione, ma gli animali soppressi certo non hanno mai torto. Quella mattanza ci ricorda che se non si trova giustizia per gli animali, non la si può trovare nemmeno per gli uomini. È l’idea sostenuta dal filosofo francese Jacques Derrida in un suo splendido libro postumo (“L’animal que,donc, je suis”). Al contrario secondo il filosofo tedesco Martin Heidegger l’animale non muore, ma “decede”. Per Derrida si tratta di una tesi che rispecchia un diffuso disprezzo per gli animali, una forma sottile di razzismo la quale dimentica che “l’animale ha tanto dell’uomo, e che l’uomo, d’altra parte, ha tanto dell’animale”.
Il guaio è, se si pensa alla violenza ontologica e all’insensatezza dei valori che segnano le odierne società di massa, che la seconda affermazione sembra quella vera, la prima quella falsa.