Il problema di cui oggi tutti discutono è nella realtà delle cose: è l’asimmetria di potenza, economica e strategica, che esiste tra la Germania e gli altri Paesi europei. A ben vedere, essa è sempre esistita: è infatti da qui che è nata storicamente quella che si chiama questione tedesca. Troppo forte rispetto alle altre nazioni del Vecchio continente, la Germania non era però così forte da poter fare dell’Europa il suo “cortile di casa”, come hanno fatto gli Usa in America Latina con la dottrina Monroe. Questa è stata la vera causa delle tragedie europee dal 1870 al 1945.
Come ha osservato Angelo Bolaffi in un libro che ho già avuto occasione di citare (“Cuore tedesco”, Donzelli, 2013), se il processo di costruzione di un’Europa unita era stata pensata anche come soluzione della questione tedesca, la Germania non più divisa avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di guidare il passaggio dell’Europa dalla moneta unica all’unificazione politica. Il punto è proprio questo: la Germania lo sta facendo? E, anzitutto, vuole farlo?
Se non si risponde correttamente a questa domanda, le stesse polemiche sul salvataggio della Grecia sono destinate a diventare sempre più il ricettacolo di solenni corbellerie, dal “tradimento” di Tsipras al “neonazismo” di Schaüble. Ora, si possono avere opinioni anche molto diverse sulla linea del governo Merkel-Gabriel (che, non lo si dimentichi, è un governo di centrosinistra), ma coloro che si professano europeisti e che sono insieme germanofobi dovrebbero chiarire meglio quale modello di governance europea hanno in mente.
Sono davvero così sicuri che lo Stato federale sia l’unico rimedio agli attuali mali dell’euro e l’unica diga alla prospettiva di un’Europa tedesca? Cominciamo col dire che uno Stato federale è inconcepibile (e impraticabile) senza una lingua comune. Va inoltre aggiunto che non esiste ancora un’opinione pubblica europea, perché sono ancora troppo differenti le memorie del passato e troppo divergenti i miti fondativi.
Credo poi che difficilmente sull’euro potremo leggere il motto stampato sulla moneta statunitense: “ex pluribus unum”. La realtà delle sue differenze -culturali, civili, sociali- resta la vera ricchezza dell’Europa, che si mostra refrattaria a ogni omologazione identitaria. Ovviamente, questo elemento di forza rappresenta anche un elemento di massima debolezza per un progetto di unione politica. Questa pare a me la contraddizione che spiega, almeno in parte, la difficoltà a trasformare i vizi privati (gli egoismi nazionali) in pubbliche virtù (un soggetto istituzionale dedito all’interesse comune).
Come se ne esce? Non lo so e non spetta certo a me trovare la soluzione. Tuttavia, nessuna persona ragionevole può negare che tocca in primo luogo alla Germania esercitare con saggezza e lungimiranza la sua leadership in Europa. Se e quando non lo fa, il Paese in cui è nato Antonio Gramsci dovrebbe ricordarle alla luce del sole (mi pemetto di suggerirlo a Matteo Renzi) che l’egemonia è cosa diversa dal dominio. E che tutti i tentativi di dominio sul nostro continente, da Carlo V a Hitler, si sono conclusi con catastrofiche sconfitte.