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Spuntate le unghie al gender. Ma la Buona Scuola resta una Sòla bella e Buona

Un primo risultato della grande manifestazione di S. Giovanni del 20 giugno scorso è già arrivato. Con una circolare del 6 luglio il Ministero dell’Istruzione ha infatti chiarito che “Le famiglie hanno il diritto, ma anche il dovere, di conoscere prima dell’iscrizione dei propri figli a scuola i contenuti del Piano dell’Offerta Formativa e, per la scuola secondaria, sottoscrivere formalmente il Patto educativo di corresponsabilità per condividere in maniera dettagliata diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e famiglie”. Un modo, seppur indiretto, per rassicurare le famiglie circa la possibilità che nelle scuole venga diffusa la teoria del gender a loro insaputa. Possibilità niente affatto remota, e che anzi si era fatta molto concreta dopo il blitz con cui era stato introdotto nel ddl Buona Scuola, in queste ore all’esame definitivo della Camera, un emendamento all’art.16 chiaramente gender oriented. Certo, tutto può ancora succedere, e meglio sarebbe stato riscrivere ex novo l’art.16. Ma con la circolare ministeriale ora sarà quanto meno più difficile far passare sotto il naso delle famiglie iniziative come quelle che si sono viste in tante scuole d’Italia in questi mesi, tutte accomunate dalla volontà di indottrinare bambini e ragazzi all’insegna di quell’”errore della mente umana”, come l’ha definita Papa Francesco, che è la teoria gender. Tutto a posto dunque? Non proprio. Perché a parte l’emendamento incriminato, è un po’ tutta l’impalcatura della riforma Giannini che non regge. Al punto che anziché Buona Scuola bisognerebbe chiamarla una Sòla bella e Buona. Tacendo del metodo con cui è stata gestita la partita, il vero limite della riforma è che resta a trazione statale. L’esatto contrario di ciò che auspicava, per dire, un Augusto Monti. Che tra il marzo e l’aprile del ’23 pubblicò su “La Rivoluzione Liberale” di Gobetti cinque articoli dal titolo Lettere Scolastiche, dove descrive, appunto, un progetto di riforma liberale della scuola che, questo sì, andrebbe seriamente rispolverato. Liberale, s’intende, nel senso che pone al centro della questione quello che, oggi come allora, è “il” problema, ovvero la libertà d’insegnamento. Scriveva Monti: “…lo Stato, e più precisamente, il Ministero della Pubblica Istruzione non deve più occuparsi di riforma della scuola…a questo attenderanno i privati (individui, corporazioni, enti locali), i quali, non più costretti a uniformare la propria attività educativa ai paradigmi statali, esperimenteranno liberamente, in concorrenza, riforme, programmi, metodi, con l’unica mira di conquistarsi, non privilegi e facoltà da parte dello Stato, ma favore e frequenza da parte del pubblico”. Questo è il punto: una scuola davvero libera è una scuola in cui lo stato fa un passo indietro abbandonando ogni velleità riformatrice. Una scuola così, pensata in un’ottica di sussidiarietà, oltre che essere meno esposta al rischio di “colonizzazioni ideologiche”, per citare ancora Papa Francesco, sarebbe anche più rispettosa della Costituzione che, vale la pena ricordarlo, pone in capo ai genitori, non allo stato, il dovere e il diritto di istruire i propri figli. Se la musica non cambierà, l’alternativa non potrà che essere, sull’esempio statunitense, indirizzarsi sempre di più verso quella forma di Opzione Benedetto (di cui il Foglio si sta meritoriamente occupando) che va sotto il nome di homeschooling.


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