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Magistratura e non solo, perché il caso italiano è un’anomalia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il tema dello stato di eccezione, concetto limite che si determina in connessione diretta con la genesi del fenomeno giuridico, si ripropone all’inizio del ventunesimo secolo nei termini di una questione centrale per i sistemi democratici contemporanei.

L’esplosione su larga scala di conflitti asimmetrici, che prescindono sia da soggetti statali che da circoscritti teatri geografici, se non prefigura i termini esatti di un vero e proprio “scontro di civiltà” pone, tuttavia, dei seri interrogativi sulla tenuta e sull’evoluzione dei principali sistemi giuridici democratici contemporanei.
In un tale quadro di riferimento, si è assistito – nell’ambito delle democrazie occidentali – ad un generalizzato rafforzamento delle prerogative del potere esecutivo nella funzione di difesa della sicurezza e della sovranità nazionale, processo disciplinato e regolamentato dalla prevalenza degli ordinamenti costituzionali.

Tuttavia, che sia previsto o meno sul piano costituzionale, lo stato di eccezione impatta sull’ordinamento trasformando “di fatto” il rapporto e l’equilibrio tra i poteri. Se in America non si fossero rafforzati i poteri presidenziali nel contrasto al terrorismo sarebbe cresciuto, esponenzialmente ed inevitabilmente, il ruolo dei giudici, prima linea naturale sul piano interno contro le attività terroristiche.

Tanto più in considerazione del fatto che, in virtù del principio dello stare decisis caratteristico dei sistemi di common law, le sentenze operano come fonte del diritto.
L’impatto di uno stato di eccezione su un ordinamento statale determina, inevitabilmente, l’alterazione dei normali rapporti istituzionali e la generale “relativizzazione” dei diritti e delle libertà costituzionali che lo Stato – anche nel momento un cui non optasse per alcuna limitazione o sospensione – non è più in grado di garantire nella loro complessità fin quando persiste lo stato di emergenza.

Dunque, se un ordinamento costituzionale non prevede alcuna disciplina dello stato di eccezione rischia di essere travolto dall’impatto dello stesso oppure di essere, permanendo il rispetto delle attribuzioni ordinarie tra i poteri dello Stato, sostanzialmente “snaturato” sul piano dell’equilibrio tra i poteri stessi, a scapito della solidità stessa del sistema e della sua capacità di risposta.
Se, dunque, nella stragrande maggioranza dei Paesi democratici, il sopraggiungere di uno stato di eccezione determina il rafforzamento – temporaneo – del potere esecutivo, le gravi e drammatiche emergenze che hanno caratterizzato per lungo tempo la vita repubblicana italiana sono state affrontate senza ricorrere a nessuna alterazione del rapporto tra i poteri dello Stato previsto dall’ordinamento costituzionale.

L’eversione stragista, il terrorismo politico e la sfida lanciata dalla mafia allo Stato hanno rappresentato, in periodi e con modalità differenti, un autentico attacco alla sovranità reale dell’ordinamento repubblicano.
Il ruolo centrale assunto dal potere giudiziario nella difesa del sistema costituzionale di fronte ad un grave e prolungato stato di emergenza, che ha segnato per decenni la vita della giovane democrazia italiana, può senza dubbio giustificare quella funzione di “supplenza politica” che viene oggi riconosciuta alla magistratura.

L’assenza di una disciplina costituzionale dello stato di eccezione, parallelamente alla mancata attuazione di una prassi straordinaria capace di derogare – in una qualche misura – agli equilibri costituzionali stabiliti, hanno fatto sì che attacchi radicali alla sovranità del sistema democratico-repubblicano venissero affrontati come semplici i fenomeni criminali.

La “legislazione dell’emergenza”, che comprende la legge Reale approvata il 22 maggio 1975, ben sei anni dopo l’inizio della stagione delle stragi, e la legge Cossiga del 6 febbraio 1980, sollecitata fortemente dalla magistratura e successiva all’assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, non ha oltrepassato i limiti imposti dall’ordinamento in tema di tutela dei diritti costituzionali o di rapporto tra i poteri, come più volte accertato dalla stessa Corte Costituzionale nelle sentenze n. 1 del 1980, n. 15 del 1982, n. 38 e n. 194 del 1985.

La “prima linea” occupata dal potere giudiziario nella difesa dello Stato contro il potere mafioso e la sua strategia stragista, che mirava a condizionare il sistema istituzionale democratico, ha determinato la legittima pretesa di esercizio di quelle che Giovanni Fiandaca definisce “funzioni divulgativo-pedagogiche volte ad informare e orientare l’opinione pubblica nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle associazioni di volontariato, nelle famiglie”.

Lo studioso di diritto penale osserva come “anche se molti di coloro che condividono la necessità di questo ruolo pedagogico non si spingerebbero, forse, sino al punto di avallare un’interpretazione così estremistica da trasformare il magistrato antimafia in una sorta di <
>, non per questo vengono tuttavia meno ragioni di possibile preoccupazione: in realtà è sempre incombente il rischio che l’attività pedagogica del magistrato, pure se svolta a fin di bene, ne accentui le valenze politiche nei termini di un pernicioso populismo giudiziario”.

In realtà, le teorie relative allo stato di eccezione e l’analisi dei contesti costituzionali degli altri paesi democratici evidenziano come i termini della questione posta da Fiandaca debbano essere ribaltati e determinati in rapporto al tema della sovranità. Senza necessariamente partire dal principio “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, è tuttavia evidente come l’organo chiamato a contrastare, più volte nella storia del paese e per lunghi periodi, gravi minacce alla sovranità reale del potere costituito possa – a buon titolo – rivendicarne la rappresentanza più autentica nonché un rapporto diretto con la sua base di legittimità: il popolo.

Dunque, è dalla funzione politica, o meglio, di “supplenza politica” esercitata dalla magistratura di fronte ai reiterati tentativi di sovvertimento dell’ordinamento costituzionale che deriva la funzione pedagogica e non il contrario.
Quello che troppo spesso viene superficialmente definito “protagonismo” giudiziario oscura i termini reali della questione che, di fatto, investono il fondamentale tema del rapporto tra i poteri in un contesto “eccezionale”. E’ pertanto perfettamente coerente con l’attuale dinamica del sistema italiano che, frequentemente, membri della magistratura transitino verso la dimensione politica “ordinaria”, assumendo posizioni e ruoli di primo piano.

Nel contrasto a Cosa Nostra, organizzazione divenuta significativamente più aggressiva dopo la fine della guerra fredda e durante la progressiva dissoluzione della Prima Repubblica, lo Stato italiano si è trovato nella condizione di dovere riaffermare la propria sovranità, in un frangente nel quale il sistema dei partiti andava incontro ad una rapida dissoluzione.

Le diverse inchieste e i successivi risvolti processuali relativi ai molteplici aspetti della cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, che avrebbe avuto luogo – secondo le ipotesi accusatorie – tra il 1992 ed il 1993, evidenziano alcuni fondamentali aspetti conflittuali nell’approccio dei diversi poteri costituzionali ad uno stato di emergenza, che nel 1992 raggiunge elevatissimi livelli di criticità.
Ricorrendo al paradigma dello stato di necessità, Giovanni Fiandaca ritiene assolutamente legittimi “eventuali interventi o decisioni extra legem dello stesso potere esecutivo”, nell’ottica in cui tali provvedimenti siano stati assunti per “la salvaguardia di un bene di rango prevalente”.

Tuttavia, l’organo giudiziario, facendo leva sulla rigida divisione dei poteri e delle competenze, dimostra di non riconoscere al potere esecutivo, sia pure in una situazione di massima emergenza, potenzialmente in grado di mettere a repentaglio la tenuta stessa dell’ordinamento, alcun margine di operatività “di fatto” al di fuori della rigida disciplina legislativa. La strategia adottata su ampia scala dalla mafia in un momento di massima crisi istituzionale della Repubblica ha rappresentato un attacco deciso alla sovranità reale dello Stato, assumendo un’inequivocabile valenza politica.

Non si è trattato di semplici crimini, per quanto efferati e protratti nel tempo, ma di un’escalation militare rispondente ad una precisa strategia politica volta a minare il potere reale delle istituzioni. A differenza del caso americano, l’impatto dell’eccezione sull’ordinamento italiano, che non ne prevede una disciplina specifica, non ha determinato un riassetto consapevole – basato sulla necessità di tutelare al meglio quelli che Costantino Mortati definisce i “fini istituzionali” o Costituzione materiale dell’ordinamento – della dialettica ordinaria tra i poteri dello Stato, andando tuttavia ad incidere significativamente sull’equilibrio effettivo tra gli stessi.

Appare dunque lecito domandarsi se non sia imprescindibile per un sistema democratico stabilire – consapevolmente – quale organo della sfera pubblica abbia maggiore legittimità a difendere efficacemente l’ordinamento in una situazione di emergenza massima e quali debbano essere le procedure di dichiarazione, autorizzazione, limitazione e controllo cui l’attività dello stesso deve essere rigorosamente subordinata.

Questi temi sono stati ampiamente sviluppati nel saggio “Lo stato di eccezione” (Aracne, Marzo 2015)



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