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Syriza, tra tolleranza e virtù

Dio è morto, Marx è morto, io non sto un granché e Syriza ha fallito, ma oggi voglio provare comunque a spezzare una lancia in favore di Tsipras.

Credo che i punti principali della questione, da tenere saldamente fermi nel tumulto dei commenti di questi giorni, siano sostanzialmente tre: nel programma di governo con cui ha vinto le elezioni Tsipras non ha mai, ma proprio mai mai, parlato di un’uscita della Grecia dall’Unione Europea o dall’Eurozona, il Grexit è stato sconsigliato dalla maggioranza dei commentatori internazionali e se oggi in Europa esiste un politico di estrazione popolare, cresciuto a pane, manifestazioni e poco altro, questo è proprio Alexis Tsipras. Corollari di ciò, anche se in realtà sarebbe più opportuno parlare di due osservazioni abbastanza banali, sono che l’esperienza di governo si è rivelata molto diversa dalla campagna elettorale e che, abituati per fortuna alle piazze più che ai palazzi, i dirigenti di Syriza hanno sbagliato gran parte delle cose che avrebbero potuto sbagliare. Tsipras in primis.

Partiamo dal primo punto saldo e dalla seconda constatazione: i dirigenti di Syriza hanno certamente compiuto una mossa azzardata presentandosi alle trattative senza un piano B da poter usare come via di fuga, ma se esiste una certezza nella vicenda greca è che Syriza ha vinto proprio perché ha sempre rassicurato i Greci di non voler abbandonare il progetto europeo. Tsipras inoltre ha spesso ribadito che i problemi della sua Grecia fossero solo alcune manifestazioni particolari della più generale crisi europea, dunque il suo intento di combattere il nemico dall’interno non dovrebbe sorprenderci più di tanto (anche se la storia pare suggerisca che i dissidenti interni siano destinati a sorti tendenzialmente peggiori dei nemici esterni). A dire il vero nei giorni scorsi Tsipras ha dichiarato di aver provato ad elaborare una strategia diversa dal pronismo nei confronti di Bruxelles, ma il piano è stato presto abortito davanti alla sordità degli interlocutori extra – europei (principalmente russi e cinesi). Oltretutto se autorevoli istituti di ricerca come il Levy Economics Institute e commentatori decisamente avveduti come Wolfgang Munchau hanno sempre sottolineato le insidie del Grexit, c’è da credere che non è affatto scontato che un’eventuale uscita della Grecia dall’Eurozona si debba risolvere in una storia a lieto fine come quella argentina. Qualcuno eccepirà il “e se ci fosse vita fuori dall’Euro?” di Krugman, ma la composizione del Pil greco, estremamente polarizzato nei settori tradizionali dell’economia e poco inclini all’export, i rischi di una guerra tariffaria, l’isolamento diplomatico e la difficoltà di accesso ai finanziamenti internazionali fanno ritenere verosimile che, pur non essendo quella nell’Euro la migliore delle vite possibili, la vita al di fuori di esso potrebbe risultare altrettanto grama.

Venendo al terzo e ultimo caposaldo della vicenda greca, nonché alla lancia che vorrei spezzare in suo favore, Tsipras si è sempre trovato in una posizione estremamente scomoda e infida. Ha dovuto tenere insieme le redini di un partito con 20.000 iscritti e altrettante correnti interne, ha dovuto coniugare promesse elettorali eccezionali con una prassi governativa molto meno sfavillante e soprattutto, difficoltà maggiore, si è trovato sempre solo nei consessi europei. L’ala oltranzista di Syriza, viste le poco favorevoli condizioni dell’accordo votato pochi giorni fa, ha le sue ottime ragioni nel chiedere una rottura con l’Europa e l’inizio di un nuovo ciclo politico senza Tsipras, ma non possiamo ignorare che nessuno si aspettava davvero che il voto greco, tanto quello di gennaio scorso quanto quello del referendum di inizio luglio, avrebbe cambiato un’Europa gelosamente arroccata sulle sue posizioni conservatrici e liberiste. Oltretutto, come sottolinea in modo lucido Luciano Canfora, “è caratteristico […] delle rivoluzioni che in esse sorga, prima o poi, l’esigenza, l’istanza, di un meccanismo correttivo. Il quale, a sua volta, può imprimere una svolta radicale, che snatura la rivoluzione stessa (Termidoro), o risolversi in un provvisorio, sempre precario, aggiustamento del sistema […]” [1]. Con ciò non si vuole asserire l’esistenza dell’ineluttabilità del tratto discendente della parabola di tutti i movimenti votati al cambiamento, ma semplicemente ricordare ai duri e puri uomini d’accademia, mi riferisco soprattutto al rampante Varoufakis, che se le manganellate in piazza costringono anche i più arditi a cambiare percorso e ritirarsi, la responsabilità politica di indirizzare un Paese può condurre a tattiche non sempre coerenti con la strategia di fondo. Ma vogliamo davvero accusare Tsipras di aver cambiato strategia? È vero e non è affatto poco che il nuovo memorandum per gli aiuti disti anni luce dalle promesse elettorali, ma il Paese è ancora in Europa (che piaccia o no questo faceva parte della campagna elettorale) e soprattutto l’accordo può riuscire a dare alla Grecia un po’ di tregua in attesa delle elezioni spagnole e irlandesi, dove i progressisti di Podemos e Sinn Féin sembra che siano destinati a vincere.

Parliamo di consolazioni dal gusto molto amaro e di percorsi così impervi da sembrare impossibili, sia chiaro, ma proprio per questo credo sia prematuro decretare il de profundis di Tsipras e del suo governo dopo appena sei mesi. Credo che non si tratti di tolleranza benpensante e distaccata, ma del pragmatismo che, almeno da sempre, caratterizza le faccende politiche.

[1] Luciano Canfora, “L’uso politico dei paradigmi storici”, Edizioni Laterza, 2010, pag. 50.

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