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Una “Turandot” d’avanguardia alle Terme di Caracalla

La Turandot di Giacomo Puccini presentata il 15 luglio dal Teatro dell’Opera di Roma nella sede estiva delle Terme di Caracalla ha un punto in comune con l’edizione proposta il prima maggio a Milano per l’inaugurazione della stagione Expo (una serie di titoli del grande repertorio italiano, ed una prima mondiale pure essa italiana – da maggio a ottobre): ambedue situano l’opera nel contesto dei movimenti culturali degli Anni ’20 in cui venne creata.

 

A Milano, la messa in scena (regia di Nikolaus Lehnoff, scene di Raimund Bauer, coreografia di Denni Sayers e soprattutto luci di Duane Schuler) erano chiaramente ispirate dall’espressionismo tedesco. A Roma (regia, scene, costumi a luci di Denis Krief) sono invece prossime al teatro astratto dell’avanguardia russa (ad esempio, Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d), che in quel periodo influì anche su movimenti di avanguardia italiana: movimenti stilizzati, coro statico come nella tragedia greca, ambientazione semplicissima in legno e bambù per meglio fondersi con i colori delle rovine monumentali delle Terme di Caracalla.

Non siamo in una mitica e magniloquente Cina di cartapesta dei tempi delle fiabe, ma l’opera viene presentato un dramma espressionista come lo si sarebbe concepito ai tempi in cui Puccini era impegnato nel lungo (ed incompiuto) lavoro. A Milano l’impianto complessivo ricorda la “secessione austriaca” (Klimt) ed il visivo tedesco di quel periodo (il movimento Die Brucke con artisti come Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner, Karl Schmidt Rottluff ) e soprattutto l’allora nascente cinema da cui Puccini era molto affascinato (specialmente il Fritz Lang di ‘M’, evocato nei costumi del coro).

A Roma evoca memorie degli spettacoli di Rosso di San Secondo e di quel Teatro delle Arti, allora punto di riferimento dell’avanguardia teatrale. Ricorda anche le fotografia di alcuni allestimenti di opere di Malipiero (come L’Orfeide). C’è, però, una differenza profonda. A Milano viene rappresentata l’opera come da libretto di Adami e Giacosa, con la scena finale quale composta da Luciano Berio. A Roma, l’opera termina con la morta di Liù , non per uno scrupolo filologico, ma nella convinzione che Puccini non la portò a termine per motivi drammaturgici: il “dramma” della dannazione di Calaf termina con la fine di Liù e con il Principe tartaro e la Principessa cinese attoniti. Anzi, l’intera seconda parta (secondo e terzo atto) è come un sogno di Calaf. Una visione onirica ossessiva come nel Die tote Stadt di Eric Korngold. Un ricordo che siamo ai tempi della psicoanalisi.

Juraj Valčuha offre una concertazione davvero unica. A differenza di altre che o sottolineano gli aspetti melodici o pongono l’accento sugli “imprestiti” da Debussy (ad esempio, le note che contraddistinguono la morte di Liù e la breve marcia funebre), Chailly mostra la convergenza di Puccini con l’innovazione musicale degli Anni ’20 del secolo scorso: non solo Debussy ma anche Schoenberg e l’allora giovanissimo Korngold (l’ascolto, in forma privata, del cui capolavoro aveva, secondo alcuni musicologi, sconvolto Puccini sino a quasi impedirgli di completare il finale di Turandot). Viene esaltato il cromatismo e gli accenni alla atonalità. Per quanto all’aperto l’acustica è ingrata, si percepivano bene le tinte dei vari passaggi orchestrali. Il coro diretto da Roberto Gabbiani, e la voci bianche dirette da José Maria Sciutto, sono, come il una tragedia greca, veri protagonisti. 

Di grande spessore il cast vocale. Iréne Theorin ricorda ai meno giovani la grandissima Turandot di un alto soprano svedese: Birgit Nilsson, specialmente nella scena degli indovinelli e nell’aria In questa reggia. Jorge de Léon imposta, correttamente, tutta la parte sul registro di centro, come richiesto da Puccini che lo considerava l’espressione massima della sensualità virile, ha un timbro chiarissimo e non esagera con gli acuti. Marti Katzarawa è una Liù drammatica non il solito soprano lirico un po’ sdolcinato di troppe produzioni. Marco Spotti un Timur altamente drammatico. Tutti di alto livello gli altri (specialmente le tre maschere).

Turandot è in scena fino all’8 agosto un vero e proprio festival pucciniano. Include tre delle opere più note del compositore scadenzate in modo che si possano vedere in tre serate successive: Madama Bufferfly, Turandot e Bohème. Il terzo spettacolo è una ripresa della semplice mainteressante messa in scena dell’anno scorso (regia Davide Livermore, maestro concertatore Paolo Arrivabeni): un gioco di specchi e proiezioni. Gli altri due sono nuovi allestimenti innovativi che fanno discutere. Lo schema funziona: i 3700 posti sono quasi sempre pieni (nei primi sei mesi del 2015 la biglietteria ha incassato tanto quanto tutto il 2016). I turisti possono godere tre opere in tre sere una dopo l’altra. Grazie alle facilitazioni per chi ha meno di 26 anni, l’anfiteatro è pieno di giovani.


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