Alexis Tsipras avrà pure commesso una quantità di errori in questi mesi e soprattutto nelle ultime settimane, prima mandando alle lunghe una trattativa che sfumava sempre all’ultimo istante e poi convocando il referendum sulle proposte ultimative che gli erano state formulate per sbloccare la tranche di 7 miliardi di euro. La sonna in questione era sostanzialmente vincolata al pagamento delle rate dei rimborsi al Fmi scadute a giugno e ad onorare i versamenti alla Bce del mese corrente.
D’altro canto, Tsipras ha avuto l’indubbio merito di sollevare la spessa coltre di ipocrisia che copre la realtà dei conti della Grecia e soprattutto la questione del terzo Piano di aiuti, di cui tutti condividono da tempo la necessità ma di cui nessuno voleva parlare apertamente.
Se in Grecia s’hanno da fare ancora altri sacrifici, ha poco senso imporli per ottenere solo lo sblocco di un pagamento che deve essere girato ad altri creditori. Altra cosa è metterli sul piatto in cambio di un sostanziale alleggerimento del debito pregresso e di un nuovo Piano di aiuti.
Venendo ai numeri, basta rilevare che nel 2014 il deficit della Grecia è stato di appena 0,7% del Pil, mentre per quest’anno il Fmi si attendeva addirittura un surplus dello 0,6%: rispetto al -15% del 2009 ed al -6% del 2012, di passi avanti ne sono stati fatti, e sostanziosi. Francia ed Italia, per non parlate del Regno Unito e degli Usa, avrebbero tanto da imparare quanto a rigore nel risanamento.
Il fronte dei creditori è profondamente diviso: il Fmi sostiene la tempo la necessità che anche i creditori debbano fare la loro parte, ristrutturando il debito pregresso e che c’è necessità di una nuova immissione di risorse per un importo che varia tra i 35 ed i 53 miliardi di euro. Il finanzamento è stato richiesto formalmente dal governo greco all’ESM ed al Fmi subito dopo il referendum. Si tratta di due decisioni che vanno assunte contestualmente, perché aggiungere il nuovo prestito a quelli in essere sarebbe insostenibile, perché il debito greco, che l’anno scorso era già di 317 miliardi di euro (pari al 177% del Pil), arriverebbe ad un livello compreso tra i 350 ed i 370 miliardi di euro, portandosi ad una percentuale del Pil compresa tra il 197 ed il 207%.
L’obiezione mossa da parte tedesca al tavolo di Bruxelles è semplice: non ha più alcuna fiducia nelle promesse formulate da Tsipras e nella mozione appena approvata dallo stesso Parlamento greco ad amplissima maggioranza, da cui sono rimasti esclusi solo il Partito comunista, Alba Dorata ed una pattuglia di dissidenti di Syriza.
Secondo la stampa tedesca sarebbe stata chiesta l’uscita temporanea della Grecia dall’euro, ovvero in alternativa la costituzione di un Fondo di garanzia di importo equivalente agli aiuti. La ipoteca arriverebbe al doppio dei proventi delle privatizzazioni indicate nella lettera di intenti inviata al Fmi dal Governo greco il 5 luglio 2011, con cui si dava l’avvio al secondo Piano di aiuti: nel complesso, si arrivava a 22 miliardi di euro. Cifre ampiamente sopravvalutate, perché la crisi economica greca ha abbattuto i valori degli asset in questione. Quidni, a meno di non voler conferire il Partenone, il cui valore storico ed artistico è inestimabile, o l’insieme delle isole è evidente che la proposta tedesca non ha fondamento concreto.
Il fatto è che gli Stati europei si sono sostituiti attraverso l’ESM ai creditori privati, e che in virtù del loro status non sarebbe ammessibile la ristrutturazione del debito greco. Nella stessa condizione si trovano anche il Fmi e la Bce. In pratica, mentre il Fmi chiede agli Stati europei di farsi carico delle perdite che deriverebbero dalla ristrutturazione, la Germania non intende andare oltre una dilazione delle scadenze ed un alleggerimento dei tassi di interesse. Un orizzonte di allungamento a sessant’anni, rispetto ai trenta attuali, riecheggia sinistramente il lungo periodo delle Riparazioni imposto dal Trattato di Versailles alla Germania, che non pagò altro che la prima rata con la provvista finanziata direttamente da Wall Street.
Il fronte dei creditori della Grecia è diviso, per questioni politiche interne: nessuno vuole mettere a perdita quote dei prestiti precedenti e soprattutto ha disponibilità di bilancio per farantire il nuovo Piano di aiuti.
Con l’intervento dell’Esm, del Fmi e della Bce si sono automaticamente volatilizzati tutti i proclami con cui si impone la partecipazione dei privati al rischio di default dei debiti sovrani (PSI – Private Sector Involvement), che è stato ufficializzato mediante l’apposizione di apposite clausole all’atto della emissione dei titoli (CAC – Collective Action Clause).
In pratica, la ristrutturazione del debito pubblico è possibile solo quando un Paese non ha ottenuto gli aiuti delle istituzioni pubbliche. Questa è la morsa in cui si trova la Grecia, il cui debito pubblico è praticamente tutto nelle mani di queste istituzioni.
Nei casi di emergenza, gli Stati fanno intervenire la loro Banca centrale, che compra direttamente il debito pubblico. Così è accaduto per fronteggiare la crisi negli Usa, in Gran Bretagna, in Giappone. E’ una pratica ufficiale dappertutto tranne in Europa.
Nella Unione europea, infatti, vige il ferreo divieto di finanziamento monetario degli Stati. Si arriva così alla aberrazione per cui i finanziamenti alla Grecia arrivano per il tramite dell’ESM, al quale gli Stati dell’Eurozona conferiscono apposito capitale ed adeguate garanzie, generalmente chiedendo risorse a prestito al mercato. Quindi, l’ESM attinge nuovamente al mercato dei capitali per finanziare gli aiuti, mentre quest’ultimo gli gira la stessa liquidità immessa dalla Bce con il Qe comprando altri titoli pubblici.
Dopo aver salvato le banche con fondi pubblici, in Europa è stato messo in piedi un sistema in cui il mercato si nasconde dietro il paravento degli Stati, i quali hanno il privilegio di non accettare la ristrutturazione del debito da parte dei Paesi in crisi. Il merito di Tsipras è di aver fatto emergere tutta la lucida follia di questa architettura europea: il mercato infallibile.