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Villa Necchi a Milano

Villa Necchi a Milano è un gioiello di architettura razionalista. La casa di Nedda e Gigina disegnata e arredata col gusto di quegli anni secondo l’idea del Portaluppi, spicca per la bellezza e la fortezza delle materie prime. Per il concentrato di arte che l’abita. Delle passioni, la caccia e i viaggi, che raccontano con timbro estetizzante un’epoca che fu veloce e vitale. Che sferragliò fino a deragliare. E chissenefrega. Rimane la villa. E rimane l’arte che, al netto della subcultura partorita dall’ideologia servita come le restatine alla sera, un poco sbriciolate e tiepidine, è una delle migliori che l’Italia ha saputo produrre in particolare quanto a edilizia. Prima, ovvio, dei deliri sociopatologici degli edifici Le Corbusier per tutti. Palazzi/alveari dove i rumori liberatori individuali dovevano essere acusticamente socializzati.
Visitare la villa è stata l’occasione per avere conferma della scarsa libertà di pensiero cui obbliga la scuola italiana, quella dell’obbligo. E ciò vale riforma a parte,  questione tristemente attuale e condominiale.
La signorina del Fai messa lì a far da guida obbligatoria, dai fianchi mischina lei della larghezza del comò che la presidente Buitoni Borletti ha in testa, nell’illustrare le bellezza della villa ha dovuto infilare, ogni due per tre, dei riferimenti al Duce. Ad esempio, di fronte a un Sironi bellissimo all’ingresso – ecco dovete sapere che quella rappresentata da Sironi è la famiglia secondo l’impostazione fascista – . Che poi è un padre, una madre e un figlio. Certo non c’era l’arcobaleno ma manco manganelli.
Poi, nella stanza di fianco di nuovo – ecco qui il Duce non voleva mettere piede perché il puro folle di Wildt era troppo efebico – . Che, tradotto per i diversamente acculturati, voleva dire che il puro folle era senza minchia.
Insomma, a un certo punto, prendo e ci dico alla signorina: – Ma chissenefrega di cosa pensava il Duce, chissenefrega se ci o non ci metteva piede. Ci dica di quest’arte, ci schiuda questo scrigno, bellezza che contiene altra bellezza quella che allora veniva dall’idea che sottendeva la vita. E non viceversa.
Ci riporti a quelle giornate di una famiglia che, potendo vivere di bellezza e d’ozio, seppe amare l’arte e assecondarla. Ci sveli qualche aneddoto di queste stanze, di questi bagni. Metta in moto per noi quei personaggi. Riempia questi abiti delle forme di Nedda, ci faccia immaginare un suo flirt di fronte allo specchio di questo bagno privatissimo, inondati dai riflessi di luce sul marmo arabescato.
Macché. Niente da fare.
Il problema è che una scuola, che ti educa a vedere le cose dallo stesso punto di vista e non ad avere tutti i punti di vista, ti rovina. Non si spiegherebbe come mai quel visitatore, colpito dalla bellezza di villa Necchi, abbia deciso di donare una macchina da cucire. Capite come siamo rovinati?
Tutto archeologia operaia deve diventare. E meno male che era casa di borghesi industriali che facevano macchine per cucire. Tant’é.


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