Barack Obama ha deciso. Dopo averci riflettuto sopra per più di un anno, crede di aver trovato la soluzione di uno dei problemi posti dalla forma e dalle sostanze che oggi hanno assunto le competizioni fra le superpotenze, alla luce della separazione tra i progetti scientifici e quelli militari.
Lo ha annunciato la Casa Bianca attraverso un ordine esecutivo, una “scorciatoia” usata per i progetti urgenti, autorizzandoli a procedere anche nel caso che il Congresso esprima pareri critici e ne rallenti o addirittura ne blocchi la realizzazione. È il frutto di una intensa collaborazione fra diverse “specialità”, dal dipartimento dell’energia, la fondazione nazionale della scienza e il Pentagono, dopo che erano stati consultati anche l’Fbi e la Nasa. L’iniziativa coinvolge dunque tutti i settori cruciali. Lo richiede la sua complessità ma anche, anzi soprattutto, la sua natura e il momento in cui viene lanciato, che ricorda una sfida analoga di mezzo secolo fa, che segnò l’inizio dell’era spaziale.
Oggi come allora, l’America si lancia in una gara di cui forse pensava di non avere bisogno, sorpresa o almeno messa in allarme dall’iniziativa di una potenza rivale. Negli anni Sessanta fu l’Unione Sovietica attraverso lo Sputnik, che vide Mosca balzare in testa in un campo completamente nuovo, ad aprire la gara. Questa volta si tratta della Cina e in un campo molto più ampio, che può coinvolgere molti settori. Si chiama Tianhe-2 ed è il supercomputer sviluppato dall’ente di tecnologia per la Difesa.
È lo strumento di un “sorpasso” inatteso che vede Pechino per la prima volta davanti a Washington nella gara dei computer. Le sue “dimensioni” sono espresse in sigle inedite: il massimo del suo potere si manifesta in 54,9 petaflops, un livello mai toccato finora misurato su una «scala» anch’essa inedita ed è suscettibile di ulteriori miglioramenti in tempi relativamente brevi. Non è una vera e propria sfida di tipo militare, ma è applicabile in tutti i settori, compreso quello bellico.
Ma è alla radice che esso rappresenta la più diretta sfida alla supremazia dell’America. Che ha fatto i suoi conti e ha deciso che è necessario e urgente rispondere e riconquistare il primato. Con ambizioni all’altezza della scala del problema, a cominciare con le “dimensioni”.
Il nuovo supercomputer dovrà essere in grado di effettuare un miliardo di miliardi di operazioni per secondo, calcolate su una scala che si chiama Exascale e sarà applicabile in campi diversi quanto la misura dei mutamenti climatici sulla Terra, la ricerca di materiali nuovi e perfino lo “studio del cervello umano”. Per realizzarlo occorrerà però un impegno intenso e soprattutto parecchio tempo. Le previsioni medie parlano di dieci anni e di una “risposta nazionale, uno sforzo strategico e coerente, dice il testo dell’ordine esecutivo, del governo federale e dei settori pubblico e privato”.
Il compito, si sottolinea, è ancora più ambizioso e arduo di quello che mezzo secolo fa fu avviato per la “corsa alla Luna” con l’Urss. Perché allora c’era già qualcosa di pronto; le tecnologie necessarie per quel “salto spaziale” erano in gran parte note, mentre per le Exascale dovranno essere compiuti importanti progressi già nel settore della ricerca.
Eppure si avverte una certa fretta, che non è solamente dovuta alle dimensioni dell’impegno scientifico ma anche al clima attuale delle relazioni internazionali. Diversi settori della macchina di potere americana esprimono crescente allarme non tanto per una ipotetica “minaccia russa” che anche se ci fosse realmente sarebbe molto locale, regionale, ma per la concorrenza cinese, che invece sta diventando veramente planetaria estendendosi ormai, nel campo economico e dunque anche politico, all’America Latina, all’Africa e, nel settore propriamente militare, concentrandosi sul Pacifico meridionale.
Suscita allarme, in particolare, il più recente passo nella contesa per le isole nel mar della Cina meridionale, in particolare per quella che anche il segretario di stato Kerry ha definito l’altro giorno, in un incontro a Kuala Lumpur con il collega cinese Wang Yi, la “Grande muraglia di sabbia”, un progetto in sé di ingegneria civile ma che potrebbe mutare radicalmente gli equilibri nel Sud-Est Asiatico.
La Cina sta “trasformando il mare in terra” rovesciando quantità “potenzialmente illimitate” di sabbia sugli scogli in cui praticamente consistono le isole in suo potere ma rivendicate anche dal Giappone, dalla Malesia, dalle Filippine, dall’Indonesia e dal Vietnam. Gli scogli si amalgamano così, si uniscono, diventano terra, rinforzata da massicce infusioni di cemento, che la rendono utilizzabile per costruire edifici, porti, torri radar e aeroporti, per un totale che hanno “superato i 2 mila acri”. Una differenza in più fra questa gara e l’altra. Ieri una corsa alla Luna, oggi la creazione di nuove terre.