Il raddoppio della manovra di svalutazione dello yuan, decisa dalla Banca del popolo cinese, rappresenta un segnale chiaro della necessità per Pechino di sostenere ad ogni costo e con la massima determinazione la crescita economica assicurando la stabilità finanziaria interna. Le reazioni preoccupate dei mercati hanno colto a pieno i pericoli che Pechino sta correndo e che farà correre all’economia globale, anche nel caso di un atterraggio morbido, assestandosi verso percentuali di aumento del PIL molto contenute.
Dal punto di vista quantitativo, l’operazione di svalutazione dello yuan è davvero poca cosa rispetto alle oscillazioni che hanno caratterizzato i rapporti tra euro e dollaro negli anni scorsi e soprattutto da poco più di un anno a questa parte, da quando il Governatore della BCE Mario Draghi aveva fatto intendere che si sarebbe proceduto a un allentamento quantitativo. Sin da allora, l’euro ha cominciato a perdere quota sul dollaro, mentre lo yuan rimaneva legato alla valuta americana.
Dire ora che la svalutazione dello yuan è tutta colpa dell’Europa sarebbe esagerato, ma non lontano dalla realtà. Abbiamo svalutato l’euro in una condizione di avanzo commerciale, ancorché derivante principalmente dall’export tedesco. Questa svalutazione dell’euro si è aggiunta a una drastica riduzione degli import, determinata dalle politiche di austerità. Nel Bollettino di maggio scorso, !a BCE fa emergere con chiarezza il ribaltamento delle direttrici del commercio internazionale nell’Euro zona dopo la crisi: mentre i rapporti infra europei sono crollati dal 70% al 30%, sono correlativamente aumentati i flussi extra europei.
Questa tendenza è particolarmente vera per l’avanzo commerciale tedesco, tutto basculato fuori dai confini dell’euro. I Paesi emergenti sono divenuti fondamentali per l’economia europea: un vantaggio quando comprano, un tallone d’Achille quando cominciano ad avere problemi. Dopo le difficoltà della Russia, della Turchia del Brasile, per non parlare delle difficoltà dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, ora dobbiamo fare i conti con il rallentamento della Cina e la svalutazione dello yuan.
È ovvio, poi, che la trilaterale composta da USA, Europa e Giappone, che si richiama al coordinamento del G7 sin dai tempi della sistemazione valutaria dopo la crisi del dollaro nel 1971, rappresenta una sorta di club in cui anche le Banche centrali, pur nella loro autonomia, concertano il sostegno alle rispettive economie anche a costo di interferire pesantemente sui cambi valutari. Le politiche di allentamento quantitativo si sono susseguite a Washington, a Londra, a Tokio ed infine a Francoforte, in una continua staffetta in cui Pechino è esclusa, pur essendo il convitato di pietra in tutti gli incontri.
Il “peg” dello yuan nei confronti del dollaro, questo legame di cambio invariabile nel tempo, non era sostenibile dal momento in cui l’euro si è svalutato. In molti tra gli europei erano illusi di far festa a Pechino, risolvendo i propri problemi di crescita interna vendendo in Cina.
Nei rapporti internazionali siamo scivolati dalla interdipendenza alla dipendenza, prima per gli approvvigionamenti energetici nei confronti dei Paesi produttori di petrolio, ora nei confronti dei mercati di sbocco. Intere filiere produttive vengono calibrate in funzione di questi mercati. Il segmento dei beni di lusso italiani ha puntato molto su queste prospettive, che ora si fanno molto meno rosee. Forse una politica economica tutta fondata sul l’export è vantaggiosa in taluni momenti, ma espone ad altrettanti rischi.
Pechino non vuole fare l’agnello sacrificale: ha ridotto significativamente, di due terzi, l’abnorme saldo estero in percentuale al PIL cui era arrivata nel 2007, mantenendolo comunque inalterato in valori assoluti. Ha operato correttamente per il ribilanciamento della crescita, esattamente come gli era stato richiesto dal FMI. Non è accaduto lo stesso in Europa, con la Germania che si è ulteriormente avvantaggiata di un euro debole.
Quella di Pechino è una reazione decisa alle politiche monetarie espansive condotte in Occidente: subito dopo la crisi americana del 2008 aveva chiesto che si individuasse un paniere di monete per fissare la parità dello yuan. Non conveniva a nessuno legarsi a un nuovo regime di parità. Tutti hanno preferito tenersi le mani libere, nessuno escluso. Il protezionismo realizzato stampando moneta non è meno irrituale di una svalutazione decisa come misura di politica economica.
Ora il conto è arrivato, e sarà salato per tutti: nessuno si illuda che sarà ancora facile come in passato arricchirsi con il mercantilismo drogato dalle monete.