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Che cosa devono insegnare i casi di Pirelli e Italcementi

Se ne va anche Italcementi, che qualche settimana fa è stata ceduta da Italmobiliare (famiglia Pesenti) ai tedeschi di HeidelbergCement. Senza cedere al nazionalismo di maniera – un riflesso sbagliato nell’era della globalizzazione dei mercati – va però osservato che nella nostra politica economica c’è qualcosa non va se sono ormai centinaia i marchi storici venduti all’estero. Pirelli, Barilla, Alitalia, Star, Plasmon, Algida, Edison, Gucci, BNL, Parmalat, Eridania, San Pellegrino, Salumi Fiorucci, Peroni, Riso Scotti, Pernigotti, Gancia, Buitoni, Antica Gelateria del Corso, Bottega Veneta, Loro Piana e tanti altri costituiscono ormai i grani del triste rosario di un’economia nazionale che sta perdendo competitività.

La capacità, il genio di tanti imprenditori italiani che hanno inventato prodotti famosi nel mondo – dall’alimentare all’abbigliamento, ma non solo – si infrange contro un muro altissimo e resistente, eretto dall’insipienza politica su questioni cruciali: dall’energia al credito, passando le infrastrutture. È normale che i capitali si muovano e dunque che le aziende vengono acquistate e vendute senza tener conto della loro nazionalità. Ma c’è da chiedersi perché questo avvenga pressoché a senso unico e faccia arrossire il saldo tra marchi acquisiti da italiani sui mercati esteri (come hanno fatto la Luxottica di Leonardo Del Vecchio e la Fiat gestita da Sergio Marchionne) e quelli invece venduti.

Un sindacalismo eccessivo, una burocrazia astrusa e l’atteggiamento della politica – più incline a voler gestire direttamente parte dell’economia che non a proporre le riforme necessarie – hanno favorito nel tempo un tessuto economico fatto spesso di imprese troppo piccole e quindi del tutto incapaci di fare shopping all’estero. D’altronde è davvero difficile lavorare e crescere se oppressi da una tassazione elevatissima (quella apparente è pari al 44,1% del Pil e sale in realtà al 53,2% se sottraiamo l’economia sommersa stimata al 17,3% del Pil), se le banche ti fanno lo sgambetto e se gli uffici pubblici fanno a gara nel frenare ogni tuo slancio.

Il caso Italcementi ci obbliga ad esempio a un severo confronto con la Germania. Rispetto a un concorrente di Berlino e dintorni, un imprenditore italiano si trova infatti a correre gravato di una zavorra che ne ostacola ogni movimento. Sono sufficienti alcuni dati per rendersene conto. In Italia occorrono 1.185 giorni per risolvere una controversia commerciale, in Germania appena 394. Da noi il costo (tasse incluse) per l’elettricità è di 0,1052 centesimi di euro per Kwh: +14% rispetto alla Germania (0,0808 centesimi di euro). Non solo: per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 115 giorni in più di quello tedesco. E se tra il 2013 e 2014 il carico fiscale sul lavoro in Germania è rimasto sostanzialmente inalterato (+0,1%), da noi è invece aumentato del +0,4%, toccando il livello record del 48,2% rispetto al costo del lavoro: significa che quasi metà di quanto gli imprenditori pagano per le buste paga dei lavoratori se ne va in tasse e contributi sociali.

D’altronde questa disparità di condizioni non si limita alla vita delle imprese ma si estende purtroppo anche a quella degli stessi cittadini. Ci sarà pur un motivo se gli italiani che durante la crisi hanno deciso di emigrare dal nostro Paese (sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua) hanno eletto a meta preferita proprio la Germania, che ha fin accolto 59.470 nostri connazionali (di cui 13.798 solo nel 2013)… Al giorno d’oggi, infatti, non sono solo i capitali ma anche le persone a muoversi liberamente nel Continente alla ricerca di mercati più liberi e in grado di assicurare maggior benessere.

Massimo Blasoni
Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro


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