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Ferragosto: l’ombra dell’estate

Ferragosto. Ciascuno torna a casa, foss’anche per la brevità di un finesettimana, e si stringe nel suo pugno di affetti. Tanto sole, tanta ombra.
Stringi il pugno e però dentro, allo sbocciare della mano, non ti rimane nulla. Gli affetti si sono fatti aquiloni e tu, in mano, non hai che fili sempre più sottili. Non hanno più la forza delle rondini, l’entusiasmo di Giugno, ma se ne volano via. Si sparpagliano e tutto, in te, si spariglia.
C’è lo zio. I capelli si sono fatti pochi e bianchi. La voce non ha forza. Un venticello troppo debole sale dal diaframma e le corde vocali non vibrano. Tutto rimane inevaso. Tutto diventa rimandabile. E la zia, un tempo bistrattata dai quei continui imperativi, adesso nel contrappasso deve cercare di dare conforto indovinando il roteare degli occhi, le pieghe di una pelle sempre più asciutta che chiude guance mute e smunte.
Parla poco lo zio. Le mani, deformate dall’indebolirsi progressivo dei muscoli, delle cartilagini e dei tendini, di ogni connettivo, non sono più capaci di una stretta calorosa e vagano alla ricerca di un contatto. Una relazione. Vagano storte come radici in cerca di altre radici, ormeggi alla caducità di quella vita che la malattia sfarina giorno dopo giorno.
L’indole di un tempo – ribelle e polemica – è ora fiaccata. Reclusa dentro un fisico irriconoscibile. Una gabbia arrugginita e malandata. Il parkinson.
C’è il nonno, poi. Che piange, solo. Si sveglia alle due dentro il cuore della notte giovane. E il suo è un cercare, disperato, lei. La cerca con la mano nell’altra metà del letto, ma non trova che freddo. Il freddo dell’assenza.
Le gambe gonfie lo inchiodano a quel materasso di solitudine. Si farebbe bastare perfino i lamenti di lei. La invidia.
Piange il nonno, e non basta tutta la compagnia dei figli a riempire tutta una vita trascorsa insieme. Ogni lunedì, lei alla briula e lui allo sbriuni. Lei in sottoveste a offrire, di quella forma di pane, un fianco sempre diverso a lui che, piantato su quelle gambe che ora non riesce nemmeno a guardare, pigiava energicamente l’impasto. Sudava lei, sudava lui. Lievitava la vita.
E poi ci sono gli amici. Li provi a cercare ripassando dai vecchi luoghi, provando a seguirne le scie con in testa un cronovisore, rispondendo all’idea autistica del tuo tornare.
T’inerpichi per il paese, nel centro invaso dai turisti, e non fai che attendere un messaggio di risposta per prendere anche solo un caffè. Arrivi, però, in fondo al Corso senza aver ricevuto risposta.
Fai inversione aiutandoti nella piazzola del distributore e non ti rimane che lanciare un’occhiata verso le persiane dietro alle quali hai sospirato da adolescente. Uno sbuffo di gasolio annerisce quel ricordo fattosi fumetto sulla tua testa e torni indietro. I luoghi d’un tempo sono ormai il set per sceneggiature che appartengono a nuovi protagonisti.
In questo sparigliarsi di ricordi, passato e presente, è il caso a dettare le regole. Incontri lei che non vedevi da tempo e la scopri alle prese con una malattia dai sintomi poco preoccupanti ma dal nome sinistro. E che hai purtroppo visto vincere vite belle e promettenti. Anime indomite e tenaci. E lo stomaco ti si sprofonda. Ti vuoti.
L’abbracci. Fuori dal tuo controllo sei lì con la testa che prova, alla svelta, a recuperare tutti quei brandelli di memoria. Li cuci alla svelta. Già, perché alla vita, che è bella, piace scappare dentro un’ombra, in un mulinello di polvere.

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