Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Quello che è stato chiamato, fra le altre cose, «il secolo più corto» ha compiuto da poco i suoi cento anni, se ci si rifà a un colpo di rivoltella a Sarajevo. Si conclude con 70, invece, se si rende memoria ai due ordigni nucleari che devastarono fra il 7 e il 9 agosto 1945 due città giapponesi, da allora legate indissolubilmente nella memoria: Hiroshima e Nagasaki.
Il via e la conclusione di una tragedia insensata che coinvolse e devastò l’intero pianeta, provocando ogni sorta di orrori, nella «qualità» e nella quantità, senza che né i protagonisti né i loro discendenti riescano a trovare un contesto razionale fra il colpo di pistola di Gavrilo Princip e il battesimo di un’era nucleare «raccomandata», fra gli altri, da Albert Einstein (che se ne pentì quasi subito). Da allora è cambiato il mondo, ripetiamo, ciascuno con un suo sentimento e una diversa coscienza. Anche oggi sulle rovine di Hiroshima si deporranno fiori, si terranno discorsi, ci si raccomanderà a turno la memoria e un oblio camuffato da perdono.
Hiroshima e Nagasaki pilastri della Storia? Come Grande storia non fanno parte del capitolo del Giappone ma di quello dell’America. Gli Stati Uniti, già allora crogiuolo del pianeta, vi aprirono una nuova strada; il Giappone, aggressiva potenza provinciale del ventesimo secolo, ne fu toccato incidentalmente. Americane furono e sono la gloria, il trionfo, la responsabilità, il rimorso, l’ebbrezza. Da Hiroshima e Nagasaki nacque la pax americana, che coincise con la Guerra fredda.
Ci si consola, ancora spesso ma sempre meno, con l’argomento che quelle due bombe che hanno mandato a morte centinaia di migliaia di civili giapponesi avrebbero salvato la vita ad altrettanti soldati americani. «Mezzo milione», lasciò scritto nelle sue memorie Harry Truman, il presidente che diede l’ordine di sganciare la Bomba, convinto dai leader militari che gli parlarono, appunto, di «almeno mezzo milione». Le previsioni del tempo non raggiunsero mai, in realtà, quella cifra. Il «bilancio preventivo» dei costi di una guerra, fino all’occupazione dell’ultimo lembo dell’arcipelago giapponese, parla di un massimo di 40 mila caduti Usa.
Analisi più moderne, dovute anche alla disponibilità di documenti fino a ieri segreti, sembrano indicare piuttosto che, a convincere a desistere una classe dirigente di samurai e il suo imperatore, fu un avvenimento che segue Hiroshima di quattro giorni: la decisione di Stalin di violare il Patto di non aggressione che legava l’Unione Sovietica al Giappone e di dichiarargli guerra. Nagasaki venne poche ore dopo, la resa di Tokyo seguì quasi immediatamente. Fino a quegli avvenimenti il governo imperiale aveva continuato a sperare che l’Urss sarebbe sì entrata in gioco ma come mediatrice, in alternativa alla richiesta americana di resa incondizionata. Così concluse, almeno, l’analisi dello storico giapponese Tsuyhshi Hasegawa, che ricorda fra l’altro l’ultimatum che Truman aveva letto personalmente alla radio con le parole: «Altrimenti dal cielo cadrà una pioggia di rovine di cui la Terra non ha mai visto l’eguale».
La resa fu firmata il 15 agosto. Essa non fu scritta soltanto dai generali o dai diplomatici, ma continua a essere scritta. Tutti ricordano ancora un grande film di Akira Kurosawa, Rapsodia d’agosto, ambientato a Nagasaki, e la sua tesi: che gli americani «si scusino con il popolo giapponese, altrimenti questa tragedia non potrà mai avere fine». Ci si chiede ancora, per esempio, perché quelle due città furono scelte per l’olocausto finale (finale anche perché l’America di atomiche, in quel momento, ne aveva due in tutto). Il motivo principale è che quasi tutte le altre città del Giappone erano state distrutte con armi convenzionali e Tokyo aveva già contribuito con 150 mila civili arsi vivi. Tra i centri superstiti, Hiroshima presentava un’orografia che si credeva avrebbe favorito la diffusione del Fuoco. La rovina di Nagasaki fu la tenera memoria del ministro degli esteri Usa, Henry Stimson, che aveva passato, tanti anni prima, una bellissima luna di miele a Kyoto, capitale culturale del Giappone, e ora se la trovò designata come bersaglio di un olocausto nucleare. Egli fece scattare immediato un veto e il posto di Kyoto fu preso da Nagasaki.
Altri gallonati avevano altre preoccupazioni. Per esempio, che la Bomba non fosse abbastanza devastante. E proposero, dunque, di farla seguire da uno stormo di bombardieri che lanciassero una pioggia di ordigni incendiari. Ci vollero gli scienziati unanimi a rassicurarli che «bastava così». Un altro generale, Leslie Groves, direttore del Progetto Manhattan, che aveva costruito l’atomica, aggiunse, in una dichiarazione davanti al senato di Washington, che la morte causata da un’alta dose di radiazioni non comportava una sofferenza e sarebbe stata invece «un modo piacevole per morire». Dopo, immediatamente dopo, si descrissero il meno possibile i resoconti e le immagini delle stragi. La censura era ferrea. Ad aprire una breccia fu un giornalista australiano, che per primo parlò di una «morte nucleare», poi uno scrittore americano, John Hersey, che descrisse Hiroshima sul New Yorker e poi in un libro, che però in Giappone fu bandito dalla censura.
Rimasero però le immagini, i racconti di tanti olocausti personali. I quadri di padri e figli spellati dalle ustioni, di una donna vagante tra le macerie alla ricerca di un posto in cui cremare il suo bambino e che alla fine trova solo un elmetto militare per contenerne le ceneri. Le immagini delle persone sfigurate dalle radiazioni al punto da non avere più una fisionomia, di genitori da cui i figli correvano via spaventati perché li prendevano per mostri. Oppure la storia di Akiko Osato, la bambina di Hiroshima che chiese alla mamma, il mattino del 6 agosto 1945, uno di quegli aranci che erano stati messi da parte «per mangiarli in cantina nell’eventualità di un attacco aereo». La madre glielo negò, dicendo che bisognava risparmiare. Akiko morì fra le sue braccia, la mamma visse a lungo con il rimorso di quel frutto negato. Sull’altare buddhista, accanto al letto, tenne fino all’ultimo giorno un cestino di arance come offerta all’anima di Akiko.
E ci sono le gru di un’altra bimba, Sadako Sosaki, che il giorno della Bomba non morì, ma si ammalò di «qualcosa» che stava per essere riconosciuto e definito «radiazioni». Quando le scoprirono gli esperti, esaminato il deserto che l’uomo stava facendo sulla Terra, conclusero che non una sola pianta avrebbe potuto «fiorire su quella terra avvelenata per almeno settant’anni». E invece, già nella prima primavera, i mozziconi anneriti dei salici videro germogli, riapparvero fiori. Sadako fece in tempo a vedere la natura che guariva, a sperare di poterne far parte. Visse dieci anni e dedicò le ultime settimane a piegare pezzi di carta in forma di gru, uccelli di buon augurio. Si era convinta che, se fosse riuscita a fabbricarne mille, sarebbe guarita. Arrivò a 644. Trecentocinquantasei ne aggiunsero, racconta, le sue compagne di scuola, in tempo per l’inaugurazione di una statua di Sadako. L’origami, arte rarefatta dell’effimero, è diventata per una volta pietra. Centinaia di colombe di pace, bianche o grigie, volano ora attorno agli alberi piantati dai visitatori di Hiroshima, anche stranieri, «per ricordare le anime e pregare per la pace». Però un cartello accanto al tempio avverte cupo, esagerando: «Chi tocca le colombe è pregato di lavarsi le mani per non contrarre la malattia che esse portano».