Le statistiche dei board delle società del FTSE MIB mostrano metriche molto positive. Il numero medio dei consiglieri è 13,4, i consiglieri indipendenti sono in media poco meno di 8, il livello di indipendenza è quindi superiore al 50%, ben oltre la raccomandazione del codice di autodisciplina che indica il 33%. Questi numeri sono la dimostrazione che i board italiani si stanno avvicinando alle best practice internazionali, un buon segnale per il nostro mercato.
Al di la di questo trend positivo, la situazione diventa ben più complessa quando due importanti driver di governance entrano nell’equazione ovvero:
1. Gli investitori esteri chiedono a gran voce una maggiore diversità nei board ed una maggiore attenzione alle necessarie competenze/professionalità dei consiglieri affinché questi organi apicali siano attrezzati per rispondere alle nuove esigenze che i mercati economici e finanziari potrebbero determinare.
2. Gli investitori esteri da sempre chiedono che i board siano meno numerosi per poter favorire un dialogo più costruttivo ed una maggiore interazione tra i vari membri. La raccomandazione è sempre di mantenersi entro il range 9-12 salvo per l’industry bancaria dove la peculiarità del business e la sua complessità induce a permettere Board più numerosi.
Questi due driver sono entrambi intuitivamente validi, sono sicuramente volti a garantire board più appropriati, sono entrambi in linea con le best practice di governance ma l’impatto che determinano è assolutamente diverso, quasi dicotomico.
Cerchiamo di contestualizzare questa dicotomia. Il primo driver ovvero la “Board diversity” comporta che i consigli debbano trovare consiglieri dotati di un maggior numero di competenze o background. Questa necessità comporta un effetto contrario ovvero una difficoltà nel garantire una maggiore professionalità o specializzazione. La soluzione per mitigare questo rischio risiede nell’aumentare il numero dei consiglieri e quindi in pieno contrasto con il secondo driver ovvero Board meno numerosi.
Un altro esempio ci rende più agevole la comprensione della complessità del team; la regolamentazione bancaria, in molti casi più stringente, prevede che i comitati abbiano determinate composizioni ovvero maggioranza di indipendenti o addirittura tutti indipendenti e prevedono anche regole d’indipendenza per i presidenti. Banche come Intesa Sanpaolo, UniCredit, MPS o Mediobanca per poter rispondere pienamente a queste indicazioni devono porre in essere un gioco degli scacchi per poter riempire tutte le caselle e molte volte i conti non tornano, gli indipendenti sono meno di quanti ne servano, le professionalità non coprono tutte le necessità. La soluzione più facile diviene consiglieri indipendenti su più comitati a discapito del loro coinvolgimento e adeguato impegno. Anche in questo caso la soluzione più agevole è aumentare i consiglieri e questo si scontra nuovamente con il secondo driver.
Il gioco può continuare all’infinito cambiando ogni volta i fattori dell’equazione. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria distorsione; best practice di governance entrambe valide collidono nel loro impatto pratico. Queste regole giuste se applicate contemporaneamente da società come Telecom Italia, Generali, ENI, ENEL, Prysmian o Mediolanum possono creare difficoltà enormi nella composizione dei consigli e dei comitati. Ne consegue la necessità di leggere la governance come una indicazione lasciando poi alle stesse società un’applicazione concreta che tenga conto della realtà e delle peculiarità di ogni società.
Negli ultimi anni le best practice e le normative comunitarie e locali hanno sempre indicato la strada di board meno numerosi e le società si sono adeguate. Oggi, la forte attenzione verso la necessità di rivedere le “Board diversity”, uno dei principali strumenti di mitigazione del rischio per gli investitori, potrebbe invertire questa tendenza e spingere le società a rivedere il numero più appropriato di consiglieri. Una soluzione a questa dicotomia potrebbe essere un ripensamento del principio di proporzionalità dei consigli, ovvero i posti assegnati alle minoranze. Oggi in media i consiglieri delle minoranze sono in media il 18%; ipotizzando un incremento di questa proporzione magari al 30% – oltretutto in pieno allineamento con le aspettative della comunità finanziaria internazionale – si avrebbero più indipendenti senza dover aumentare i board. Un equazione perfetta! Non ci resta che attendere il responso delle società e del mercato.
Andrea Di Segni
Head of Corporate Advisory Sodali