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La prova del fuoco del salvataggio Ilva

Il commissariamento dell’Ilva deve portare al salvataggio del centro siderurgico di Taranto nel rispetto dei vincoli ambientali. Diversamente, il fallimento dell’azienda avrebbe conseguenze sociali ed economiche tali da azzerare la credibilità di ogni altra politica per il Mezzogiorno se è vero che, come dice il governo, chiudere l’Ilva costerebbe 8 miliardi. Vengo al dunque.

L’Ilva, si sa, raggiunge il pareggio operativo con una produzione giornaliera di 21.500 tonnellate di acciaio. Naturalmente, a pieno regime, l’Ilva può produrre di più e guadagnare, anche parecchio. Ma questo e’ il traguardo del futuro, non il punto di partenza di oggi. L’azienda ha spento l’altoforno principale, l’AFO5, per fine campagna, tenendo in funzione due degli altri tre altoforni (AFO2, AFO4). Questa scelta riduce la produzione a 12.000 tonnellate al giorno, determinando, dati i costi fissi, perdite operative di un centinaio di milioni di euro.

Non crocifiggo nessuno per questo. Sarebbe errato e ingeneroso. Ogni congiuntura ha le sue ragioni. Ma non possiamo nemmeno dimenticare che, quando a metà 2014 si decise di “cambiare passo” lasciando cadere il piano industriale dell’allora commissario Bondi, l’Ilva perdeva 35 milioni al mese. Nella seconda metà dell’anno scorso, all’apparente recupero del conto economico anche grazie a introiti non operativi, corrispose l’aumento dei debiti fino al punto di rendere inevitabile il ricorso all’amministrazione straordinaria.

Ora, per fermare l’emorragia in attesa della ripartenza di AFO5, bisogna aumentare la produttività degli impianti attivi senza aggravare l’impatto ambientale. Un’operazione che può funzionare se si caricano con preridotto gli altri altiforni nella misura del 20% del potenziale. Il preridotto e’ il minerale di ferro lavorato non più con il carbone, altamente inquinante, ma con il gas, che lo è’ assai meno. Sento dire che l’azienda avrebbe fatto o avrebbe in animo di fare un ordine d’acquisto di 800 mila tonnellate di questo semilavorato. Sarebbe assai interessante.

Con l’utilizzo del 20% di preridotto in carica, il professor Mapelli, di nuovo consulente dell’Ilva, calcolò a suo tempo un incremento della produttività dell’11% e un decremento del 15% delle emissioni di CO 2, delle polveri sottili e degli idrocarburi aromatici. Quando a Taranto si potrà arrivare all’utilizzo del solo preridotto con soli forni elettrici, a parità di produttività gli idrocarburi aromatici spariranno del tutto dalle emissioni, le polveri sottili scenderanno al 5% dei livelli attuali e la CO 2 sarà un terzo di quella attuale.

Tutto questo è rimasto lettera morta perché a metà 2014 il piano industriale, centrato sull’innovazione del preridotto, e’ stato contrastato e congelato ex cathedra come non sostenibile sul piano economico. Non mi interessa, in questa sede, aprire processi al passato, per quanto prossimo. Basterà ricordare che, tre-quattro mesi dopo, il presidente di Federacciai ha proposto di produrre il preridotto a Piombino e oggi guardano al preridotto alcune delle maggiori acciaierie del Nord per contrastare, con l’innovazione, la scarsità e la crescente onerosità del rottame, la loro materia prima. Il fatto e’ che i costi del preridotto stanno scendendo sui mercati internazionali, come era previsto da Bondi.

L’Ilva dovrebbe guardare all’innovazione del preridotto non solo per obiettivi congiunturali, ma anche per avere un processo produttivo più snello e flessibile, non più basato solo sul carbone. L’Ilva del 2015 produce ancora gli acciai dell’Ilva pubblica (in venti anni è stata introdotto una sola vera novità di prodotto), mentre i concorrenti europei hanno sviluppato almeno 6 nuove categorie di acciaio (ciascuna categoria composta da 6 a 10 specialità) che hanno conquistato i mercati della meccanica, del settore automobilistico/veicoli commerciali e delle condutture.

Lo sviluppo di nuovi prodotti e l’incremento di produttività degli impianti possono realizzarsi solo se le imprese potranno operare senza emergenze di natura ecologica, da cui derivano pressioni ambientali che deconcentrano i gestori e compromettono la produttività. Siamo sicuri che, quando AFO5 tornerà a produrre, allora automaticamente ILVA supererà il break-even? Pongo la domanda perché, secondo i tecnici, esistono altri colli di bottiglia a valle degli altoforni.

Come potrebbe migliorare il rapporto con la città e pure con la magistratura? La magistratura di Taranto ha commesso anche errori materiali e giuridici clamorosi come è emerso nei lavori della Commissione Industria del Senato, oltre che in Cassazione, ma resta un interlocutore stimabile e utile alla società, in ogni caso decisivo.

Ora, se l’azienda si impegnasse ad affrontare la sorgente di gran parte dei pericoli ambientali che ne frenano l’attività, il clima, e non mi riferisco a quello atmosferico, potrebbe migliorare. Questa sorgente di pericolo si chiama carbone: carbone e la sua trasformazione in coke. Ricordiamoci che l’Ilva deve gestire a ridosso della città 10 grandi cokerie. E’ prudente immaginare che non sorgano altri conflitti senza un progetto di graduale superamento del carbone?

Il costo del gas naturale, necessario a produrre il preridotto, negli ultimi mesi ha continuato la discesa. L’ultimo prezzo registrato prima di scrivere questa lettera era di 0.205 euro al metro cubo, ma c’era stato anche un minimo di 0.15 euro. L’amministrazione Obama promuove la ritirata dal carbone non tanto perché colpita dal Dio Sole sulla via della Green economy, ma perché la rimozione delle sanzioni all’Iran associata allo sfruttamento dello shale gas abbassa strutturalmente le quotazioni del gas.

L’Iran può diventare un fornitore di gas naturale liquefatto necessario a produrre preridotto sul territorio italiano, creando nuova occupazione. Nel frattempo, può essere un fornitore interessante anche di preridotto da caricare negli altoforni e nei forni elettrici italiani. Da qui può cominciare una metamorforsi che nel 2030 potrebbe portare l’Ilva a liberarsi dal carbon fossile con il duplice effetto di riportare la pace in città e di mettere in scacco i concorrenti europei.

Attenzione: svedesi e norvegesi hanno programmato la produzione di preridotto entro il 2018; un’Ilva ancora basata sul solo carbon fossile entrerebbe in sofferenza. Si pensi invece a quale ruolo potrebbe assumere l’Italia in Europa ove si intestasse questa battaglia dell’innovazione per l’Ilva. A Bruxelles metterebbe all’angolo i siderurgici tedeschi e francesi che vorrebbero fosse fermato il salvataggio dellIlva in quanto aiuto di Stato. A Taranto si scriverebbe il futuro, altro che sussidi. E loro non vorrebbero per non dover investire, altro che tutela della concorrenza!

Ma a Taranto si potrebbe riprendere il rapporto con la Bei per finanziare questi investimenti, e ricorrere pure ai certificati bianchi, in altre circostanze assai discutibili, per reggere il gioco. L’Ilva, insomma, potrebbe offrire la migliore tra le best practices e diventare il punto di riferimento nella Ue. Per l’Italia il problema diventerebbe un’opportunità. Quale grande partita industriale potrebbe attendere il governo, anzi il premier stesso!

Certo, non mancherà chi potrà criticare Matteo Renzi per aver dato retta a quanti volevano la testa di Bondi illudendosi che l’Ilva, con le legacy da sempre note, fosse vendibile ad Arcelor Mittal o a improbabili cordate di siderurgici italiani senza disponibilità a investire denari veri. Ma che cosa saranno mai alcune critiche di fronte a una nuova storia di speranza e sviluppo?

In ogni caso, se non si fa ripartire l’Ilva con un processo produttivo semplificato e più compatibile con l’ambiente, l’intero Mezzogiorno resterà al palo. Con un effetto negativo sensibile pure sulla bilancia commerciale dell’intero Paese se e’ vero che le difficoltà produttive dell’Ilva hanno bruciato 4,45 miliardi euro di esportazioni (in particolare dal giugno 2014 e ancor più dallo scorso gennaio) allargando il varco da cui passa l’acciaio asiatico. Mi viene da dire: coraggio, Matteo.

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