“Regna per le strade di Roma un tanfo di cavoli marci. Attraverso le belle finestre dei palazzi del Corso si scorge la povertà degli interni. Roma in realtà è un agglomerato di sublimi rovine e di brutte chiese e case moderne; sarebbe stato meglio se non fosse sopravvissuta alla fine dell’età antica, se si fosse trasformata in un deserto popolato solo dai resti dei suoi monumenti, come avvenne ad altre grandi capitali; la conversione al cristianesimo ha segnato l’inizio della sua decadenza. Della patria di Cicerone, Cesare e Virgilio rimangono solo le spoglie esteriori; il suo spirito è morto per sempre e sono i preti e le superstizioni cristiane che l’hanno ucciso”.
Se non fosse per l’invettiva anticlericale dai toni un po’ démodé difficilmente credo si potrebbe trovare una descrizione dell’Urbe più brillante ed evocativa di quella appena citata. Mi sembra anzi che potrebbe trattarsi di un commento scritto o detto da qualcuno a proposito delle recentissime vicende capitoline mentre, in realtà, si tratta di un passo di Rome, Naples et Florence, anche se probabilmente la ricercatezza della prosa tradisce sin da subito l’eleganza non comune della penna di Stendhal. Nel 1817, data della prima edizione del Diario, Roma era poco più che un giardino papale circondato dalla miseria e dalla “povertà degli interni”, dunque sarebbe poco generoso tracciare frettolosi parallelismi tra la città di ieri e quella di oggi, ma sotto gli abbagli della crescita degli ultimi duecento anni pare sia possibile scorgere una sorta di intima conservazione dell’identità ritratta dallo scrittore francese.
La peculiarità di Roma, dal medioevo ad oggi, è quella di unire in un solo spazio urbano le due facce della città moderna e della campagna rurale. Per accorgersene non serve avventurarsi nella tundra che separa i quartieri periferici a nord e a sud – est del centro, ma è sufficiente perdere qualche ora del giorno tra Villa Ada, il quartiere Trieste e via Salaria e osservare che la flora urbana di Roma, quella che non è stata intaccata dal cemento e che non è stata coltivata in qualche villa, non ha nulla a che vedere con l’ordine e con la geometria ansiolitica dei parchi londinesi, newyorkesi o con i giochi di fiori delle città della Scozia. Da una città contadina, nata sulle sponde di un fiumiciattolo a seguito di un fratricidio e rimasta ai confini del progresso dal Rinascimento in poi, non possiamo dunque pensare di pretendere molto se non il buon senso di conservare ciò che ha ereditato dal passato, ma la cronaca recente getta ombre e preoccupazioni anche nella mente più ottimista.
Non sono gli scandali di potere, il nepotismo della politica e la cattiva amministrazione in sé a destare particolare preoccupazioni, e in fondo non possiamo non sorridere delle bravate goliardiche dei palazzinari mafiosi e di altri intellettuali se pensiamo al cesaricidio, a Papa Borgia, Innocenzo VIII o a quel placidone di Giovanni Maria Mastai Ferretti; non sono le giunte che negli anni del boom ci hanno regalato periferie sconnesse e grigie per far fiorire i conti in banca dei costruttori locali; non è la disorganizzazione di una città che ambisce ad essere una capitale europea ad offuscare il nostro buon umore, così come non è la realistica prospettiva che il salto nel baratro del degrado sia appena cominciato a farci aggrottare le ciglia. È che Roma è diventata semplicemente invivibile. Dal punto di vista urbanistico non è mai stata la migliore delle città possibili, ma oggi non v’è traccia di uno Stendhal con una sindrome da raccontare, di un Papa da cacciare durante una rivoluzione lunga una settimana o di un poco poetico mecenate che commissiona capolavori per celebrare il suo sfarzo. Non dico che sarebbe stato meglio se non fosse mai sopravvissuta all’età antica, lungi da me, ma non posso non constatare un tradimento nemmeno troppo tendenziale delle aspettative di grandezza che ci tramanda il passato.
Sarà il difetto della contemporaneità, sarà che la gola profonda della storia genera nostalgia in chiunque vi si sia sporto almeno una volta. Sarà. Ma oggi Roma mi sembra, come ebbe a dire il maestro Argan, poco più che una polenta molle. E parlare di Roma evocando la polenta non è mai così immediato e indolore.