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Perché il mini yuan non fa gioire Stati Uniti ed Europa

OBOR, cina venezie

Ci sono forti preoccupazioni per l’export italiano verso la Cina dopo le recenti decisioni di svalutare lo yuan. In realtà, il cambio estero dello yuan era troppo alto, e il continuo deflusso di capitali all’estro ne era la più evidente dimostrazione. In realtà, anche il miglioramento del rapporto di cambio tra euro e yuan, in cui il primo ha perso quasi un quarto del suo valore a partire dal maggio del 2014, è stato pressoché ininfluente nelle relazioni commerciali tra Italia e Cina.

Questa è la prima conclusione che si trae dalla lettura del flash statistico sul commercio estero pubblicato dall’Istat mercoledì scorso. I rapporti con la Cina sono improntati alla staticità: sempre nel confronto tra i primi due semestri, le importazioni italiane sono cresciute del 6%, mentre l’export ha ceduto addirittura del 2%. Se ne deduce che il rallentamento dell’economia cinese ha pesato molto più della svalutazione dello yuan, che è rimasto legato al valore del dollaro, nei confronti dell’euro. Nonostante l’apprezzamento dello yuan, le importazioni italiane dalla Cina sono invece cresciute, anche se ad un ritmo pari ad un terzo rispetto a quello registrato dalle importazioni dagli Usa. Per quanto riguarda l’export italiano in Cina, l’effetto di svalutazione dell’euro è stato nullo.

E’ evidente che ci troviamo in un contesto in cui l’Italia sembra rapportarsi agli Usa nella stessa maniera in cui la Cina si rapporta all’Italia: basta vedere i dati relativi alle relazioni commerciali nei settori della manifattura. Nel primo semestre di quest’anno, l’import italiano dalla Cina è stato di 13,6 miliardi di euro, a fronte di un export di 5 miliardi. Viceversa, il nostro export verso gli Usa è stato di 18 miliardi di euro, a fronte di importazioni per 6,7 miliardi.

In entrambi i casi il rapporto tra import ed export è di 2 a 1. Il caso del comparto tessile e dell’abbigliamento, compresa gli articoli in pelle e gli accessori, è ancora più significativo: l’import italiano dalla Cina è stato di 3,3 miliardi di euro, a fronte di un export di 865 milioni; l’export italiano verso gli Usa è stato di 1,9 miliardi di euro, a fronte di un import di appena 165 milioni. In questo settore, il rapporto tra importazioni ed esportazioni si amplifica ancora di più.

E’ interesse dell’Italia che in Cina aumentino i consumi di qualità, per ampliare il mercato di sbocco della sua manifattura, ma non è sul rapporto di cambio che si può far affidamento. Influiscono sulle relazioni commerciali i fattori organizzativi, commerciali, e soprattutto le dinamiche interne di ciascun Paese, in termini di reddito e soprattutto di ricchezza: un crollo nel settore immobiliare o dei valori di Borsa ha effetti sui consumi di lusso molto superiori rispetto ad una svalutazione valutaria. Negli Usa, ad esempio, la ripresa dei corsi di Wall Street , il sostegno che la Fed ha prestato al settore dei mutui immobiliari sono stati determinanti per la ripresa economica generale.

La svalutazione dello yuan si colloca in controtendenza rispetto alle attese che gli Usa coltivavano da decenni: a loro avviso, serviva una rivalutazione finalizzata a colmare definitivamente il saldo strutturale attivo della bilancia dei pagamenti cinesi. Il disavanzo commerciale statunitense, d’altra parte, in questi mesi ha ricominciato a correre, per via della svalutazione dell’euro e della forte crescita interna. La svalutazione dello yuan, ora, non può che contribuire ad un peggioramento della bilancia commerciale americana. L’aumento dei tassi da parte della Fed si allontana ancora, perché farebbe riversare sul dollaro altri capitali, aumentandone ancora il valore. In questa prospettiva, la mossa di Pechino sicuramente contribuisce a ridurre il deflusso di capitali privati dalla Cina, perché servono più yuan per comprare un dollaro. Washington, quindi, dovrebbe ringraziare Pechino.

La situazione monetaria internazionale è ora di sempre maggiore incertezza. E’ stato abbandonato da tempo il principio in base a cui i saldi correnti devono essere in pareggio. Dapprima gli Usa hanno praticato il disavanzo strutturale, coperto con la emissione di liquidità in dollari. Poi è stata la volta dei Paesi produttori di petrolio, quindi del Giappone, della Cina e della Germania, in avanzo strutturale, sempre alla ricerca di strumenti non inflazionistici per impiegare il surplus accumulato: anche la crescita del debito, pubblico e privato, alla lunga non è sostenibile. Tutti però cercano di far crescere le proprie economie vendendo di più all’estero: da questo surplus dipende la stabilità dell’occupazione. E’ questo che provoca tensioni continue sui mercati finanziari: le sorti di ogni paese dipendono in modo crescente dalle decisioni degli altri.

Dopo la crisi, le banche centrali occidentali non hanno coltivato l’obiettivo del pareggio dei conti correnti con l’estero, agendo attraverso la leva della liquidità e dei tassi di interesse, ma hanno abbassato i tassi per sostenere l’economia e fabbricato liquidità che si è riversata all’estero squilibrando i cambi. Dopo l’Eurozona con il Qe, anche la Cina ha svalutato la propria moneta, nonostante l’avanzo strutturale dei suoi conti con l’estero: il mercantilismo è l’unica regola che conta. Occorre proteggere la propria competitività e difendere le ricchezze accumulate: che si tratti di oro o soltanto di moneta scritturale, non fa differenza. Il sistema monetario internazionale, sottodeterminato dalla sola eccezione americana, era comunque prevedibile.

Ora tutti agiscono senza alcuna regola, ma perseguendo unicamente il proprio interesse. E’ un  protezionsmo molto simile a quello che fu praticato dopo la crisi del ’29: una guerra non dichiarata, di tutti contro tutti.


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