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Perché la mossa monetaria della Cina non squasserà i mercati

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Le speranze di una tregua estiva, che consentisse agli operatori di godersi appieno le vacanze, sono, fin qui, andate deluse. Ci ha pensato la Cina ad alimentare la volatilità, scegliendo il periodo meno appropriato per consentire maggiore flessibilità al proprio cambio.

La misura, varata la settimana scorsa in una fase in cui rinnovata debolezza sulle commodities alimenta dubbi sulla tenuta del ciclo cinese, ha dato adito a timori di svalutazione competitiva in arrivo, e rafforzato le tensioni disinflattive globali.

Non bastasse, il timing della mossa, giunta a poca distanza da un crollo borsistico e da una robusta serie di misure di easing fiscale e monetario, ha indotto negli investitori il sospetto che queste ultime non stiano funzionando, minando ulteriormente la fiducia nella capacità delle autorità cinesi di governare il ciclo.

Gli effetti sui mercati sono stati molteplici, e rilevanti. Le mai sopite aspettative di una “currency war” si sono rafforzate, con gli immaginabili effetti sulle currency dell’area (in particolare dei paesi concorrenti e di quelli commodity exporters) e sulla volatilità dei cambi in generale.

Parimenti si son rafforzati i timori di un hard landing dell’economia cinese, con impatto ulteriore sulle commodities, sui settori direttamente legati alla domanda cinese (vedi auto e lusso europei) e sulle aspettative di crescita e inflazione globali.

La reazione all’evento (con ogni probabilità esaltata dalla scarsa liquidità del periodo) mi pare francamente esagerata.

Un buon esempio di quest’eccesso lo forniscono i mercati europei, che hanno lasciato sul terreno più della stessa divisa cinese (lo Yuan ha perso in tutto meno del 3%, l’Eurostoxx, ad oggi, il 4%). Una reazione eventualmente giustificata se ci trovassimo davanti ad un inizio di un movimento di ampio respiro, una circostanza espressamente negata dalle autorità cinesi, che parlano espressamente di aggiustamento “one off” e di passo verso la liberalizzazione del cambio.

Certo, il recupero di un po’ di competitività non sarà dispiaciuto al Politburo, ed è assai probabile che di qui a fine anno l’indebolimento dello Yuan continui. Ma una prosecuzione sui ritmi di metà della scorsa settimana sembra da escludere, non foss’altro perchè l’esistenza di un peg col dollaro negli anni ha portato le aziende cinesi ad accumulare enormi quantità di debito in dollari, che una svalutazione aggressiva farebbe esplodere. Per non parlare della fuga di capitali, che accelererebbe significativamente.

Quanto alla temuta implosione dell’economia, anche qui siamo con ogni probabilità di fronte ad un eccesso di pessimismo. Vero, i dati sul manifatturiero e sugli investimenti recentemente hanno deluso significativamente. Ma quelli sui servizi invece si stanno rafforzando. E’ probabile che i vecchi modelli di valutazione del ciclo non tengano conto del progressivo ribilanciamento dell’economia cinese verso il terziario, conducendo ad una sottostima dell’attività economica.

Aggiungiamo che le autorità hanno varato negli scorsi mesi corposi pacchetti di easing fiscale e monetario (tagli dei tassi e della riserva obbligatoria, ricapitalizzazione delle banche, TLTRO alla cinese, iniezioni di liquidità e misure a sostegno dell’equity), e altre ne vareranno nei prossimi mesi. Queste misure richiedono tempo per ingranare, ma già si notano i primi indizi dei loro effetti. L’immobiliare si sta stabilizzando (vedi numero di città con prezzi in salita a luglio), le importazioni di petrolio, materiale ferroso e altre commodities sono in netto recupero e il credito ha ripreso a crescere (grafico coutesy of Capital Economics).

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Su queste basi, giudico probabile un recupero dei mercati globali nelle prossime settimane. Anche perché in Grecia sembra che il percorso verso un nuovo programma prosegua senza intoppi al momento (occhio al voto di domani in Germania), la crescita europea ha marginalmente deluso, ma considerando il pandemonio in Grecia era da mettere in conto, e le earning season hanno in generale superato il consenso (anche se in US questo era bassissimo). Certo, il crollo del petrolio (- 30% in meno di 2 mesi e ai minimi da oltre 6 anni) rischia di impattare ulteriormente il settore energy specie in US dove rappresenta oltre il 15% del mercato high Yield. Ma non si può ignorare l’impatto che avrà sui consumi e sui margini nei prossimi trimestri (vedi grafico da uno studio di Citigroup). A un anno dall’inizio del calo e col prezzo sceso di oltre il 50% direi che si può sostenere che il risparmio percepito e fattorizzato nelle funzioni di spesa dei consumatori.

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Vedremo se, dopo fiammata nei tassi, Grecia, petrolio, crollo azionario cinese e successiva “svalutazione”, i mercati dovranno gestire altri shock nei prossimi mesi.



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