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Tutti gli scenari di sicurezza energetica per l’Italia

Il tema della geopolitica energetica e della sicurezza degli approvvigionamenti riveste sempre maggiore centralità nelle dinamiche politiche globali, anche se, le tensioni registrate in diverse aree di produzione e di transito, non hanno mutato il quadro generale che si caratterizza, almeno sino ad oggi, per una sostanziale stabilità degli approvvigionamenti e dei prezzi.

La geopolitica energetica si basa su quattro variabili principali:

– il potere dei paesi produttori e consumatori
– il potere dei paesi di transito
– la distribuzione delle infrastrutture energetiche
– la distribuzione geografica delle risorse.

In Europa la sicurezza degli approvvigionamenti risulta essenzialmente connessa al mercato del gas, che è legato ad infrastrutture fisiche, siano esse gasdotti o impianti di liquefazione o rigassificazione. Le aree di maggior rilievo per gli approvvigionamenti di gas sono ad oggi le seguenti:

– l’Europa o meglio i Paesi europei, grandi consumatori, ma con differenti politiche energetiche nazionali che riflettono gli interessi nazionali dei singoli Stati
– la Russia, che sta trovando difficoltà crescenti in Europa in conseguenza della crisi con l’Ucraina, sta consolidando la sua leadership nel settore e sta rafforzando le sue posizioni in Asia (basti guardare al recente accordo sulle forniture del gas tra Mosca e Pechino)
– l’area centro-asiatica ovvero il nuovo ‘grande gioco’ con Occidente, Russia e Cina ad esercitare le più diversificate pressioni

– il Medio Oriente con i suoi attori storici e i potenziali game changer come l’Iran, qualora il negoziato sul nucleare dovesse andare in porto
– il Nord Africa, alle prese con le intricate transizioni seguite alle Primavere Arabe, cruciale per assicurare un flusso costante di approvvigionamento energetico all’Europa ed al nostro Paese in particolare
– gli Stati Uniti in piena rivoluzione dello shale oil e dello shale gas.

In questo quadro, il 2014 sino ad oggi è stato caratterizzato da un evento in potenza negativo per gli approvvigionamenti energetici globali: la crisi in Ucraina e il conseguente deterioramento delle relazioni tra la Russia da un lato e gli Stati Uniti, oltre ad alcuni alleati occidentali, dall’altro. Ad ogni modo, l’Europa per il momento non sembra avere un problema di sicurezza degli approvvigionamenti. Nel 2009 (ma anche nel 2006), per tre settimane le forniture verso l’Unione Europea provenienti dalla Russia subirono una sostanziale interruzione, ma senza creare gravi ricadute economiche o sociali. Allora, una crisi nei rapporti tra Naftogaz e Gazprom, dovuta alla morosità di Kiev, provocò dapprima l’interruzione delle forniture destinate al mercato interno ucraino; quando poi i flussi verso i Paesi UE furono deviati dall’operatore ucraino verso il mercato interno, Gazprom interruppe i flussi verso l’UE.

L’impatto di una crisi analoga a quella del 2009 potrebbe essere oggi più contenuto, considerando che nel frattempo le reti europee sono divenute molto più interconnesse (il gasdotto Nord Stream, che fornisce un’alternativa di transito rilevante soprattutto per la stabilità dell’approvvigionamento tedesco). Le principali linee a gas di approvvigionamento per l’Europa, sono infatti quelle che provengono dalla Russia che ha sviluppato circa 200 miliardi di m3/anno di capacità di esportazione; ma esiste la possibilità di accedere ad altri fornitori, il più rilevante dei quali è la Norvegia; i quattro gasdotti di esportazione dal Nord Africa all’Europa pesano per circa 70 miliardi di m3/anno (pensiamo ad esempio al Greenstream dalla Libia e al Transmed dall’Algeria).

Tale impatto potrebbe essere ridotto anche in ragione della dinamica stagnante dell’economia europea che sta influenzando la domanda energetica. Dal 2008 ad oggi, l’Europa ha fatto registrare una diminuzione del consumo di gas dell’ordine di circa il 15%. La situazione è analoga in Italia. Negli ultimi quindici anni il nostro Paese ha investito nelle infrastrutture di importazione, realizzando pipeline e terminali LNG che hanno consentito un incremento della capacità di importazione di 50 miliardi di m3 a partire dal 2000.

Il 2013 è stato inoltre caratterizzato da una netta contrazione dei consumi di gas naturale sul mercato italiano. Oggi, quindi, con 6 Paesi principali fornitori (Algeria, Russia, Libia, Olanda, Norvegia, Qatar) possiamo vantare il portafoglio di approvvigionamento gas più diversificato d’Europa. Dal punto di vista della sicurezza energetica, una domanda debole sembra costituire un elemento di ulteriore sicurezza per l’Italia.

Uno degli effetti della crisi ucraina è stato quello di ridare attualità alla questione della dipendenza dei Paesi europei dagli approvvigionamenti di gas che si trovano al di fuori dei confini dell’UE. In Europa, il tema del transito si è fatto ancor più importante a partire dalla dissoluzione dell’URSS che ha modificato la geografia politica del continente e ha fatto saltare quel meccanismo di compensazione che esisteva in seno all’Unione Sovietica tra le sue repubbliche federate. Quindi, a partire dal 1991, ciò che era condiviso ha dato origine a schieramenti contrapposti che si sono sommati ad aree con diversi livelli di instabilità:

– ovviamente l’Ucraina, che necessita di una ricomposizione d’interessi tra Kiev e Mosca
– il Medio Oriente, il Nord Africa ed il ruolo della Turchia
– lo spazio politico trans-caucasico e caspico in Asia Centrale.

La crisi ucraina resta ancora sostanzialmente aperta: lo scontro cui stiamo assistendo ha radici politiche e storiche secolari in un territorio che – giova ricordarlo – ha fatto registrare 7.000.000 di morti tra il 1939 ed il 1945. Le conseguenze di queste tradizionali tensioni sembrano ravvisarsi nella forte polarizzazione odierna che pare caratterizzarsi sempre più come un confronto geopolitico di stampo ottocentesco tra potenze, piuttosto che essere inquadrato nel XXI secolo. L’evoluzione dell’instabilità nel Paese ha dunque creato timori circa l’interruzione dei flussi con conseguenti ricadute in termini di sicurezza energetica europea.

Il Governo di Kiev deve far fronte a un consistente debito dell’operatore pubblico Naftogaz nei confronti di Gazprom, che ha interrotto nel giugno 2014 le forniture destinate al mercato interno ucraino. In questo quadro, gli Stati UE non hanno per ora segnalato criticità a fronte di un’ulteriore interruzione del gas russo (circa la metà dei flussi complessivi verso l’UE transita attraverso la rete ucraina), sebbene l’area centro-orientale sia fortemente dipendente da questi flussi provenienti dalla Russia. A questo si aggiunge il fatto che in Europa orientale le interconnessioni tra le reti sono limitate e, di conseguenza, si può parlare di una vera e propria dipendenza dal transito in Ucraina per alcuni Paesi dell’Europa orientale.

Esiste inoltre il rischio ‘incidenti’. Ad esempio, il 17 giugno un’esplosione è avvenuta in Ucraina lungo il gasdotto Urengoy-Uzhgorod (il gasdotto dell’amicizia) che porta metano russo in Europa, scatenando un incendio con fiamme alte circa 200 metri. Il Ministro degli Interni ucraino, Arsen Avakov, ha parlato di «sabotaggio attuato dalla Russia per screditare l’Ucraina quale partner commerciale». Il transito di gas non ha subito variazioni, tuttavia sabotaggi o incidenti di questo genere possono essere uno strumento utile per ridurre le capacità dell’avversario.

Con l’inverno che si avvicina, un attacco in grado di bloccare la distribuzione del gas in Europa potrebbe creare alcune difficoltà nei Paesi UE.
Oltre alle difficoltà europee, anche la situazione mediorientale resta complessa. Dall’inizio del 2014, l’avanzata dell’IS (Islamic State, in precedenza ISIS, Islamic State of Iraq and Syria) dalla Siria all’Iraq ha contribuito a indebolire la sistemazione areale frutto delle decisioni prese all’indomani della Prima Guerra Mondiale ed ha assestato un ulteriore colpo al già instabile quadro interno iracheno, caratterizzato da una lotta settaria tra comunità sunnite e sciite. Oggi l’IS è un’organizzazione che definisce se stessa come ‘Stato’ e non come ‘gruppo’; controlla tra Iraq e Siria un territorio esteso come il Belgio, e lo amministra in autonomia, ricavando dalle sue attività (fra le altre contrabbando di petrolio e sequestri) il denaro necessario per sopravvivere.

L’avanzata di IS ha dato la possibilità al Governo Regionale del Kurdistan (KRG, entità autonoma nell’ambito della Repubblica dell’Iraq) di conquistare Kirkuk e le sue risorse petrolifere e gli attacchi aerei USA in sostegno dei Peshmerga curdi testimoniano ancora una volta come il KRG, con un’economia letteralmente esplosa negli ultimi anni (almeno fino allo scontro diretto con IS), sia un alleato importante degli Stati Uniti. Il sogno dell’indipendenza, sfiorato nel 1919 è nuovamente tornato d’attualità. Sulla base di un accordo siglato nel novembre 2013, Erbil ha avviato un flusso di esportazione petrolifera attraverso un nuovo oleodotto, costruito sul proprio territorio che, al confine con la Turchia, si connette all’oleodotto d’esportazione tra l’Iraq e il porto mediterraneo di Ceyhan. In un quadro statale iracheno ancora più indebolito dalle operazioni di IS, le relazioni tra Baghdad ed Erbil restano dunque difficili, seppur costrette alla collaborazione dalla congiunta pressione statunitense e iraniana. In questo quadro, Erbil diventa sempre più centrale nella geopolitica energetica regionale.

L’apertura del canale d’importazione di petrolio dal KRG rappresenta per la Turchia un nuovo tassello del tentativo di Ankara di assurgere ad hub regionale per la distribuzione di idrocarburi in Europa, oltre a sostenere crescenti livelli di consumo interno. In Turchia, fra i principali, registriamo l’oleodotto Baku-Tbilisi Ceyhan e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum; la costruzione del Trans-Anatolian Pipeline (TANAP) rappresenta un’ulteriore congiunzione tra il Caspio e i mercati europei; esistono le linee di importazione ed esportazione dall’Iraq e il Blue Stream che dalla Russia immette nella rete turca 16 miliardi di metri cubi di gas l’anno.

In Iran il prolungamento dei negoziati sul nucleare fino a novembre 2014, con i piccoli progressi sin qui registrati, ha creato aspettative per una progressiva normalizzazione dei rapporti tra Teheran e i Paesi occidentali. Ora, sebbene per poter registrare effetti strutturali di un eventuale accordo con l’Iran possa essere necessario attendere anche un lustro, il potenziale iraniano è quello di un game changer: le riserve di gas iraniano sono le seconde al mondo dopo quelle russe.

Passando dal Medio Oriente al Nord Africa, gli eventi delle ultime settimane obbligano ad accendere un faro anche sulla Libia. Gli scontri in atto a Tripoli dal 13 luglio 2014 e a Bengasi dalla metà di maggio rappresentano i più gravi atti di violenza nel Paese dalla caduta del regime gheddafiano e segnalano da un lato il logoramento dell’accordo tacito tra le maggiori milizie che ha permesso lo svolgimento delle elezioni parlamentari del 25 giugno, dall’altra l’incapacità delle Istituzioni di gestire la transizione e invertire la tendenza al peggioramento delle minacce di terrorismo, criminalità e instabilità politica.

La produzione e la vendita degli idrocarburi, su cui si fonda l’economia del Paese – nostro primo fornitore di petrolio e terzo fornitore di gas (gasdotto Greenstream) – non ha raggiunto i livelli, né soprattutto la stabilità, che aveva prima della caduta di Gheddafi. Sono soventi interruzioni repentine della produzione di greggio e gas causate da violenze e scontri tra milizie ‘laiche’ e ‘islamiste’ che il governo centrale (sic!) non è in grado di sedare dal momento che non dispone di un proprio esercito. Considerando anche la contemporanea crisi ucraina (che potrebbe comportare un blocco delle forniture dalla Russia), un eventuale, ulteriore, blocco delle forniture dalla Libia potrebbe creare delle difficoltà per il mantenimento dell’equilibrio nel bilancio energetico italiano.

Ad ogni modo tutto il quadrante nordafricano sta facendo registrare notevoli problematiche di tipo politico e sociale. Guardiamo ad esempio all’Algeria, Paese strategico dal quale importiamo circa un terzo delle nostre forniture di gas. Il Paese non è stato investito dal fenomeno della ‘Primavera araba’ e si è mostrato negli anni un partner affidabile e resta stabile dal punto di vista politico e sociale nel panorama del Nord Africa. Non è possibile tuttavia esimersi dal rilevare che il quadro politico algerino è segnato dalla presenza del Presidente Abdelaziz Bouteflika.

L’anziano Bouteflika è stato infatti confermato al vertice del Paese per un quarto mandato, ma il voto ne ha evidenziato la fragilità e le difficoltà a svolgere il ruolo che la Nazione ha ancora voluto affidargli, ovvero gestire gli elementi della complessa instabilità nazionale e areale che per quanto attiene alla sfera della sicurezza si traduce innanzitutto in una accresciuta minaccia di terrorismo alle frontiere orientali del Paese.

A questo riguardo, basti citare l’attacco terroristico avvenuto ad In Amenas: il 16 gennaio 2013 l’impianto per l’estrazione del gas di In Amenas, una joint venture tra la BP, Statoil e Sonatrach (compagnia di stato algerina), a 82 km dal confine con la Libia, è stato attaccato da 32 militanti jihadisti, armati con fucili d’assalto e lanciagranate. L’attacco, conclusosi il 19 gennaio 2013 ha provocato 40 morti tra gli espatriati che lì lavoravano. In questo contesto, è evidente che la situazione molto instabile del Sahara ha una certa influenza sulla stabilità dei Paesi mediterranei.

La transizione geopolitica che è seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica ha nuovamente portato al centro delle strategie e delle decisioni delle grandi potenze un’area che a lungo era considerata come uno spazio politico russo, ovvero il Caucaso, il Caspio e l’Asia Centrale. Oggi si parla infatti di nuovo ‘Grande Gioco’ in Asia Centrale, riedizione del confronto russo britannico del XIX secolo. L’area contiene il 25 % delle riserve mondiali di idrocarburi e si caratterizza per Paesi importanti sia per i livelli di produzione sia per il fatto di essere cruciale per il trasporto di idrocarburi. Azerbaijan, Kazakhstan, Uzbekistan e Turkmenistan contribuiscono in modo significativo alla produzione globale di petrolio e gas. Il Kazakhstan è secondo alla Russia nella regione eurasiatica per quanto concerne le riserve petrolifere e la produzione, mentre il Turkmenistan e l’Uzbekistan sono rispettivamente il secondo ed il terzo produttore dell’area (Ashgabat è quarto al mondo per riserve di gas). In questo quadro sia attori regionali che potenze esterne (primi fra tutti gli USA) ritengono l’area un pivot per l’integrazione euroasiatica. L’Asia Centrale diviene così il ‘connettore’, basandosi su uno sviluppo infrastrutturale legato all’industria del petrolio e non solo.
Dall’Asia Centrale si arriva alla Cina, nuovo protagonista dello scenario energetico.

L’ex Impero di Mezzo è impegnato in progetti oil & gas con partecipazioni azionarie e licenze esplorative in tutta l’Asia Centrale. I dati ci dicono che:

– la quota di gas nel mix energetico cinese è destinata a crescere (dal 4,8% nel 2011 all’8,3% nel 2015)
– la produzione interna è più che raddoppiata dai 49 miliardi di m3/anno del 2005 ai 103 del 2011
– i consumi sono in significativa crescita da 46 miliardi di m3/anno nel 2005 a 130 nel 2011.

A ciò dobbiamo aggiungere le nuove infrastrutture di trasporto che porteranno il gas nei principali centri urbani della costa. In questo quadro, l’accordo siglato tra Mosca e Pechino per la fornitura trentennale di gas non rappresenta che un tassello della politica energetica cinese, che – fra le altre – è molto attiva
nel suo occidente, area storicamente nota come Turkestan. Basti pensare agli accordi di Pechino con il Kazakhstan (CAGP Central Asian Gas Pipeline, 10-15 miliardi di m3 /anno di gas in Cina); con l’Uzbekistan; con il Turkmenistan (accordo di fornitura trentennale dal 2009 per 30 miliardi di m3 successivamente incrementati a 65 miliardi di m3 /anno).

Ad ogni modo, l’accordo raggiunto tra Mosca e Pechino rappresenta una ‘pietra miliare’ nelle relazioni tra i due Paesi. Il 21 maggio, dopo un decennio di negoziati, Cina e Russia hanno concluso a Shangai il contratto sul gas. Le trattative erano ferme sulle divergenze di prezzo e si sono sbloccate solo con l’avanzare della crisi ucraina. Si tratta certamente dell’apertura di un nuovo fronte commerciale, per quanto a condizioni che sembrano non essere ottimali per Mosca, ma anche di una delle sue tradizionali oscillazioni di politica estera tra Est ed Ovest.

La leggerezza con cui USA e UE hanno approcciato la tematica ucraina, così simbolicamente importante per la Russia, ha prodotto questo nuovo avvicinamento tra Mosca e Pechino. L’accordo prevede un programma di forniture da parte di Gazprom per trenta anni, di circa 1.140 miliardi di metri cubi di gas, per un giro d’affari pari a circa 400 miliardi di dollari. Il tutto arricchito da investimenti infrastrutturali, per la costruzione di nuovi gasdotti ad hoc, pari a circa 55 miliardi di dollari.

Ciò produce un timore da parte dei Paesi dell’UE che Mosca possa distogliere l’attenzione dai vecchi clienti europei. Le forniture alla Cina arriveranno tuttavia da giacimenti nuovi che si trovano nella Siberia orientale. Nessuna concorrenza o sovrapposizione con il metano che fluisce verso l’Europa che viene estratto invece da giacimenti situati in Siberia occidentale. Lo scenario si presenta dunque molto articolato. Nel lungo periodo, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento è cruciale per la gestione e la limitazione dei rischi geopolitici, puntando su nuovi strategic suppliers.

La perdurante crisi ucraina darebbe maggiore forza al progetto South Stream, il cui valore aggiunto in ottica russa sarebbe, per l’appunto, l’aggiramento della scarsamente affidabile rete infrastrutturale ucraina. In realtà a partire dalla primavera 2014, sono aumentati i problemi per il South Stream, originati dall’UE che ha fatto bloccare i lavori di costruzione della condotta in Bulgaria.

Il contenzioso riguarda l’uso del gasdotto che secondo l’UE dovrebbe essere aperto a tutti e non solo a Gazprom. La Commissione europea, ha ‘bocciato’ infatti gli accordi intergovernativi tra la Russia e i Paesi che ospiteranno il braccio europeo del gasdotto (ovvero Bulgaria, Serbia, Ungheria e Slovenia), spiegando che «nessuna di quelle intese è in regola con le leggi UE». La Commissione chiede il rispetto della condizione, nell’ambito del cosiddetto Terzo pacchetto energia, secondo cui deve essere garantito l’accesso all’infrastruttura di rete anche ad altre società. Ma l’UE con i suoi interventi ha de facto chiesto la sospensione del progetto, alla luce dell’innalzamento delle tensioni in Ucraina.

L’infrastruttura – che dovrebbe avere una capacità di trasporto iniziale di 15,5 miliardi di m3 /anno e raggiungere, poi, il valore di regime di 63 miliardi di m3/anno – si articola in due sezioni, una offshore e una onshore.
Inoltre, l’avvio di un nuovo corridoio di importazione di gas verso l’Europa, il cosiddetto corridoio sud, permetterà nei prossimi anni un’ulteriore diversi ficazione, con l’ingresso in Italia di circa 10 miliardi di m3/anno di gas dall’Azerbaijan.

Il TAP (Trans Adriatic Pipeline) costituirà il tratto finale di questo corridoio sud. Tale opera permetterà la diversificazione per l’approvvigionamento del gas, in particolare per limitare la quota russa. Sebbene l’infrastruttura comporti un rilevante aumento della sicurezza delle forniture per l’Italia, in ottica europea la capacità annua del nuovo gasdotto è sostanzialmente marginale, se paragonato ai consumi continentali (462 miliardi di metri cubi).

L’attuale scenario, appena delineato in queste righe, ci deve spingere a riflettere sulla gestione della sicurezza degli approvvigionamenti energetici, in particolare nel nostro continente, perché l’Europa non dipende dall’Europa.

Quindi, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento è da considerarsi ‘il’ vantaggio per gli Stati e i loro cittadini. Il tema dell’interdipendenza rimane, dunque, ancora oggi sostanzialmente valido, sebbene si dovrà tener conto dei cambiamenti nel paradigma strategico del mondo dell’energia. L’avvento sulla scena delle risorse non convenzionali potrebbe, infatti, implicare una riscrittura del rapporto tra energia e sicurezza.

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