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Ttip, tutte le fissazioni dei Verdi d’Europa

Esaltato da alcuni perché promette di liberare i commerci da pesanti tariffe e barriere, criticato da altri per la difformità delle norme americane da quelle europee su temi chiavi come la privacy, guardato con diffidenza da molti per la segretezza dei negoziati, il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimentiha scatenato anche pesanti altolà da parte degli ambientalisti europei, con i britannici in prima fila. Il timore è che il trattato sui liberi scambi tra Unione europea e Stati Uniti apra le porte alle esportazioni di petrolio e gas americano (oggi le uniche fonti di energia scambiate in quantità significative tra Usa e Ue sono prodotti raffinati del petrolio e combustibili solidi) e indebolisca le politiche “verdi” europee abbassando gli standard sulla protezione dell’ambiente e della salute.

SCETTICISMO AL PARLAMENTO UE

La Commissione europea ha chiesto l’inclusione dell’energia e delle materie prime nell’alleanza commerciale con gli Usa e l’Europarlamento si è detto convinto che il trattato potrà migliorare la sicurezza dell’energia in Europa, ma ha anche invitato a non abbassare gli standard europei pur di allinearsi agli americani.

“Il Parlamento europeo sta seguendo da vicino i negoziati sul Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, che potrebbero generare la più grande zona di libero scambio al mondo. Aspettative e preoccupazioni sono sul tavolo. Il Ttip potrebbe stimolare la crescita economica e i posti di lavoro su entrambi i lati dell’oceano, però, ogni parte ha il suo mercato o i propri valori da difendere”, ammonisce il Parlamento dell’Ue.

Il sopravvento delle multinazionali e l’apertura alle esportazioni Usa di petrolio e gas renderà più difficile raggiungere gli obiettivi europei sul clima, hanno fatto notare a più riprese gli europarlamentari britannici. Spiega Molly Scott Cato (nella foto): “L’importazione di gas a basso prezzo proviente dal fracking negli Usa potrebbe mettere a repentaglio la generazione da fonti rinnovabili in Uk e in tutta Europa”.

Le proteste dei Verdi britannici hanno pesato anche a Londra dove il comitato sull’ambiente della Camera dei Comuni a marzo ha emesso un parere sul Ttip in cui, pur sottolineando le ricadute positive per l’economia, riconosce i potenziali rischi sulle “protezioni sociali e ambientali”: “E’ un punto su cui occorrerà fare chiarezza”.

I NODI DA SCOGLIERE

Il Ttip mette in gioco elementi diversi che hanno ricadute sull’industria delle rinnovabili e le protezioni per l’ambiente. Per esempio, le regole per l’approvvigionamento pubblico che obbligano le aziende americane a rifornirsi in parte da aziende nazionali (“protective public procurement”, anche detto “local content requirements” o semplicemente “Buy American”) rappresentano una delle maggiori barriere commerciali per il settore delle rinnovabili. L’obbligo di comprare beni e servizi su scala locale non esiste nell’Unione europea, dove le aziende invece devono considerare le offerte provenienti da tutti gli Stati membro, non solo dal proprio Paese.

Questa regola sarà probabilmente abolita dal Ttip per quel che riguarda i progetti dell’energia e Oliver Joy della European wind energy association (Ewea), che rappresenta il settore dell’eolico, pensa che si tratti di un esito positivo.

Altri però temono che senza l’obbligo di approvvigionarsi localmente i governi perderanno interesse nelle “politiche verdi”. “Se tra i motivi per potenziare l’industria delle rinnovabili ci sono la creazione di posti di lavoro e le ricadute positive per la supply chain, come reagiranno politici e opinone pubblica se parte del valore socio-economico di questa industria si trasferisce verso angoli remoti del mondo? E’ un bel dilemma”, osserva RenewableUk, associazione che rappresenta le aziende dell’eolico e dell’energia marina.

Altro elemento contestato del Ttip è l’Investor state dispute settlement (Isds), uno strumento che permette alle aziende private di far causa ai governi per la perdita di profitti (reali o attesi) causati dalla regolamentazione vigente. Per gli Usa si tratta di un requisito essenziale della partnership commerciale con l’Europa, ma l’Europa teme le cause intentate da aziende americane che si sentono “danneggiate” (i precedenti non mancano; per esempio, un’azienda Usa del fracking ha fatto causa nel 2013 al governo del Quebec per aver imposto un divieto sulle trivellazioni nel fiume San Lorenzo).

L’Isds sarebbe un tribunale indipendente che aggira i tribunali nazionali: per David Baldock, direttore esecutivo dell’Institute for European Environmental Policy, non si armonizza col sistema europeo. Il timore è che si crei una situazione in cui un’autorità pubblica europea, locale o nazionale, prende una decisione sulla generazione dell’energia in modo democratico e che tale decisione sia poi ribaltata dalle grandi corporation, forti degli strumenti legali conccessi dal Ttip.

EFFETTO CONGELAMENTO SULLE POLITICHE VERDI

La presidente della commissione ambiente (Uk environmental audit committee) del Parlamento britannico, Joan Walley, pensa che esista il rischio che il Ttip arrivi al caro prezzo di “buttar via le protezioni sull’ambiente e la salute pubblica per le quali abbiamo tanto lottato” e che per mettere insieme i sistemi regolatori di Usa e Ue si accetti di armonizzare i livelli più bassi di regolazione, anziché garantire i livelli più alti.

Per Baldock ci potrebbe anche essere un “effetto congelamento” su eventuali nuove regole più stringenti: in futuro sarà sempre più difficile farle approvare, a scapito ancora di ambiente e salute. “Se vogliamo un mondo low-carbon dobbiamo alzare gli obiettivi, mettere più standard sui prodotti, varare direttive per proteggere l’ambiente. Quanto il Ttip inibirà questo processo con gli americani che prendono parte alle decisioni?”

LA MOSSA DI OBAMA

Ma se gli ambientalisti protestano (persino quelli americani), le aziende delle rinnovabili – le vere parti in causa – non rilasciano commenti. Secondo qualche insider questo accade perché “tutte le grandi aziende hanno un interesse in questo trattato”, ovvero liberi scambi e meno regole fanno bene agli affari. “Attenzione: gli Usa vorranno proteggere la propria industria e il fracking e la loro politica light touch sui combustibili fossili”, avverte Baldock.

Il presidente americano Barack Obama sembra aver dato risposta proprio a questi timori. Con il suo nuovo piano per la riduzione delle emissioni di CO2 delle centrali elettriche americane, Obama ha fatto capire che l’approccio sui combustibili fossili è un po’ meno light touch. Inoltre la Casa Bianca ha mandato un chiaro messaggio sul fracking: non è più una priorità delle politiche energetiche Usa.

Fino all’anno scorso Obama definiva il gas naturale ottenuto dal fracking una valida alternativa più pulita al carbone e un “combustibile-ponte” per una transizione graduale verso le energie rinnovabili a zero emissioni, ma il nuovo piano ha relegato lo shale gas a un ruolo non da protagonista (in una precedente versione avrebbe dovuto aumentare il suo contributo alla generazione di elettricità, mentre nel piano definitivo il contributo deve restare stabile) e puntato sulle rinnovabili (solare e eolico). Il Financial Times ha scritto che l’industria dello shale gas è la vera sconfitta del Clean power plan di Obama, molto più del carbone (le proteste delle utilities e della America’s Natural Gas Alliance lo confermano). Si tratta di un segnale che il presidente americano ha inviato anche all’Europa in vista del summit sul clima di Parigi di fine anno e mentre si dilungano i negoziati sul Ttip, col timore che la firma non arrivi se non dopo le presidenziali Usa del 2016.



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