La Cina guida la più tradizionale “tempesta valutaria” agostana iniziata (si fa per dire!) nel 1971 con la dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro e la fine del regime monetario-valutario, ma più in generale economico, ideato da Bretton Woods nel 1944, che ha fatto la fortuna dell’area occidentale e sconfitto l’area sovietica.
Sulle tre svalutazioni in tre giorni dello yuan-renbimbi la cronaca non è stata capace di risalire alle vere ragioni e alle vere implicazioni della scelta fatta dalle autorità cinesi. Sconvolgente è l’assordante silenzio sulla decisione delle autorità monetarie mondiali, Banca d’Italia compresa, che lascia sospettare non sappiano risalire, come accade in Europa per analoghi argomenti, al nocciolo della questione.
A tempo debito avevo segnalato e poi ripetuto più volte che gli Stati Uniti avevano commesso un grave errore, quello di non aver emendato in contemporanea alla declaratoria di non convertibilità del dollaro lo Statuto del WTO (che ancora si chiamava GATT), stabilendo che chi intendeva partecipare all’accordo di libero scambio globale doveva seguire lo stesso regime di cambio, altrimenti poteva manipolare la competitività. Data la filosofia errata che allora prevaleva, se si fosse deciso di introdurre nell’accordo di libero scambio l’obbligo di avere un rapporto di cambio comune si sarebbero scelti i cambi flessibili, perché si riteneva avrebbero riequilibrato i deficit (principalmente degli Stati Uniti) e i surplus (allora del Giappone e della Germania) delle bilance estere, migliorando la performance dello sviluppo mondiale.
La realtà ha sconfitto la teoria, ma a sua giustificazione può addurre che la realtà aveva in corpo diversi regimi di cambio. Di questa omissione si è avvalsa la Cina che ha preferito seguire il regime di cambio fisso, ma aggiustabile, come quelli di Bretton Woods, senza però garantire la convertibilità della sua moneta in dollari. I bassi salari, il modesto onere per la rete di protezione sociale, la ridotta pressione fiscale e le tecnologie introdotte dagli investimenti diretti hanno consentito alla Cina un lungo periodo di sottovalutazione del renmimbi, con conseguenti progressi nelle sue esportazioni, anche perché metà di esse erano rese possibili da produzioni locali di multinazionali che hanno reti economiche mondiali.
Questa tuttavia non è l’implicazione più grave dell’omissione americana, seguita dall’ignavia, forse ignoranza, del resto dell’area occidentale. L’accumulo di riserve ufficiali da parte della Cina per mantenere un cambio sottovalutato è stato ingente, con la conseguenza che la sua mano politica si è armata contro la leadership degli Stati Uniti, dotandola di risorse in grado di condizionare il cambio del dollaro e il valore dei titoli pubblici americani; lo strumento usato è stato quello dei fondi sovrani di ricchezza con i quali la Cina ha effettuato investimenti strategici che hanno accresciuto la sua influenza geopolitica causando una situazione policentrica rispetto alla leadership americana. Convertendo i dollari in euro sul mercato, la Cina ha causato una sottovalutazione della moneta europea simile a quella del renmimbi, nuocendo alle esportazioni dell’eurosistema. Tutto ciò nel silenzio, interrotto solo saltuariamente da proteste per il cambio fuori mercato della Cina, corrispondente a una passiva accettazione della situazione che si veniva a creare da parte degli Stati Uniti e dell’eurozona, i cui governanti tuttora ignorano quale sia il vero punto di debolezza dell’architettura monetaria e valutaria mondiale; o, ammesso che lo capiscano, non intendono fare nulla perché congeniale al capitalismo reale e finanziario “denazionalizzato” che oggi prevale e che condividono.
Non è facile prevedere quali possano essere le conseguenze della decisione cinese di svalutare il renmimbi muovendo da un surplus della propria bilancia estera che suggerirebbe di fare il contrario, per giunta praticando un anomalo crawling peg (aggiustamento del cambio) a ritmi “quotidiani”; ma è certo che queste decisioni approfondiranno i difetti dell’architettura monetaria e valutaria internazionale che permettono ai paesi o aree in forte avanzo di bilancia estera (Cina, Giappone, Germania/eurosistema, paesi produttori di petrolio) di mantenere una domanda interna in condizioni deflazionistiche per lo sviluppo globale e di continuare a esercitare pressioni per una redistribuzione del commercio internazionale attraverso l’alterazione delle parità monetarie.
Non sembra, almeno per ora, che i leader mondiali lo capiscano e, lo ripetiamo, se lo capiscono, non intendono provvedere perché schiavi delle idee di economisti morti o di interessi sempre più vivi del grande capitale denazionalizzato, privo di una patria. Ci siamo illusi che la sovranità fosse stata sottratta dal popolo ai sovrani, ma questi, sotto spoglie economico-finanziarie, se la sono ripresa. Siamo di fronte agli alti e bassi di un ciclo vichiano o a una vera “fine della storia”? Lo capiremo presto.
(Questo commento è stato pubblicato anche dall’Unione Sarda)