In questi giorni è stata fatta circolare una proposta contrattuale tanto strampalata che per poterla spiegare è stata agganciata alla moda del momento, ovvero ispirare il contratto nazionale di categoria al “modello tedesco”, ignorandone le caratteristiche e le notevoli differenze rispetto al sistema italiano. Il contratto tedesco non è nazionale, non dura un anno e riguarda poco più del 30% dei lavoratori. Se non si hanno le idee chiare si rischiano di importare i vizi e non le virtù degli altri modelli.
Intanto non esiste in Germania un contratto nazionale vero e proprio. Il tipo di contratto che svolge in qualche modo il ruolo del nostro contratto nazionale (chiamato Flaechentarifvertrag, approssimativamente “contratto d’area”) viene stipulato innanzitutto nell’ambito di un “distretto” sindacale, corrispondente (ma non del tutto) a un Land (Stato-Regione), e poi esteso di fatto, salvo poche modifiche, agli altri distretti. Il risultato contrattuale raggiunto nel “Distretto pilota” viene poi esteso, salvo marginali modifiche, agli altri distretti. Esso si applica soltanto alle aziende affiliate all’associazione datoriale contraente, nel caso dei metalmeccanici il Gesamtmetall (la Federmeccanica tedesca).
Al Gesamtmetall sono affiliate 6.300 imprese (2,1 milioni di lavoratori), si cui solo 3.800 (circa 1,7 milioni di lavoratori) applicano il contratto; le altre 2.500 (400mila lavoratori), sono in genere piccole imprese che restano fuori dal sistema contrattuale; ad esse si sommano le imprese non associate. La copertura dei contratti collettivi in Germania, da un 80% dei lavoratori prima del 1990 è scesa oggi al 45% nei Länder dell’Ovest e al 40% in quelli dell’Est.
In Germania i contratti collettivi valgono per i soli iscritti al sindacato, i quali sono gli unici titolari del diritto di partecipare al voto sugli accordi e sugli scioperi. Il contratto non ha una durata precisa ed è molto flessibile. Ultimamente il contratto dell’IG Metall ha avuto durata annuale per adattarsi alle oscillazioni congiunturali.
Dal 2004 in Germania, con l’accordo di Pforzheim, sono previste possibilità di deroga al contratto di distretto”, inizialmente solo per crisi aziendali; successivamente la casistica si è allargata e l’azione di decentramento contrattuale può produrre norme decise a livello locale tra il management e il consiglio di fabbrica, che devono poi essere approvate dalle parti sociali.
In Italia il contratto del 2009 prevede la possibilità di deroga in situazioni di crisi o a fronte di piani d’investimenti finalizzati alla tutela dell’occupazione. Una scelta di buon senso fu fatta da Cgil-Cisl-Uil nel 2014 col Testo Unico su rappresentanza e contrattazione, seppur bocciato dalla Fiom e che però rappresentò un casus belli con il rifiuto di firmare il contratto da parte della Fiom, che ci accusava di aver cancellato il Contratto nazionale: accusa tanto roboante quanto infondata, se si ricorda che deroghe e “patti aziendali per l’occupazione” in Germania consentono anche interventi sul salario, contrariamente al Contratto nazionale firmato da Fim e Uilm.
In Germania la perdita di peso del “contratto d’area” non è stata compensata da un adeguato sviluppo della contrattazione di secondo livello. Dunque, prima di dire “facciamo come i tedeschi”, è bene fare attenzione a come stanno davvero le cose.
Dalla Germania, a mio avviso, varrebbe piuttosto la pena importare il modello di relazioni industriali della partecipazione, incrociandolo con le migliori pratiche contrattuali italiane. Più che le riforme del mercato del lavoro introdotte dal governo Schröder, è stata la partecipazione dei lavoratori a favorire la difesa e poi il rilancio del sistema industriale tedesco, dell’occupazione e quindi dei salari.
La Cisl da anni si muove su questo solco e ha proposto lo scorso 21 luglio una riforma del modello contrattuale che prevede un contratto nazionale “più votato alle tutele generali normative e salariali” e che “difenda solo il potere d’acquisto dei salari”. Nel contempo va rafforzata la contrattazione di secondo livello, aziendale e territoriale, con l’istituzione di un “salario di garanzia” che renda disincentivante per le aziende non fare la contrattazione di secondo livello. È su questo terreno che si offre alle rappresentanze sindacali l’opportunità di rientrare da protagoniste nella gestione dell’organizzazione del lavoro, nel confronto sugli investimenti e nella sfida della produttività. Modelli contrattuali innovativi si reggono su adeguate e conseguenti riforme organizzative.
Il Dgb, la Confederazione tedesca dei sindacati, ha avviato una revisione organizzativa che ha portato alla fusione di diverse federazioni sindacali che si sono dimezzate: da 17 a 8. Anche la Cisl dal 2013 ha avviato lo stesso percorso. Abbiamo 80 contratti nel solo settore industriale, 708 totali. La proliferazione delle sigle sindacali e dei contratti è uno dei fattori di maggiore debolezza nelle relazioni industriali italiane.
Ci sono strumenti nuovi, altri da importare oltre quelli già presenti nel nostro paese e di cui basterebbe recuperare il senso originario. Di revival, o di brutte copie si muore. Mettersi in discussione, avere qualche idea è il primo passo nella direzione giusta…