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Ecco i liberisti americani che tifano per l’immigrazione libera

migranti confini

Quello che segue è il testo di “Oikonomia”, rubrica settimanale di Marco Valerio Lo Prete (vice direttore del Foglio) su Radio Radicale. Qui potete ascoltare l’audio.

Il fenomeno dell’immigrazione non si può analizzare con le sole lenti della disciplina economica. Tuttavia è indubbio che il movimento di milioni di persone in giro per il mondo abbia attirato da qualche tempo l’attenzione degli economisti. Nella Germania di Angela Merkel, la cancelliera che ha aperto temporaneamente i confini ai rifugiati provenienti dalla Siria, il dibattito economico in materia per esempio è tutt’altro che assente. La stessa cancelliera, in una recente intervista, ha detto che sì ci sono ragioni umanitarie e legali per accogliere un numero maggiore di richiedenti asilo, ma ha pure specificato che “come paese forte ed economicamente sano, abbiamo la forza di fare tutto ciò che è necessario”.

D’altronde se la Germania ha speso circa 1,5 miliardi di euro nel 2013 per gestire i rifugiati, cioè circa 12.500 euro l’anno per ogni singolo richiedente asilo, quest’anno con 800mila richieste di asilo previste si stimano costi compresi tra i 5 e i 10 miliardi di euro. E adesso che la ministra del Lavoro e del Welfare, Andrea Nahles, ha chiesto risorse fresche per l’emergenza, il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, non le ha opposto un netto rifiuto come qualcuno in Italia si sarebbe potuto aspettare; piuttosto ha dichiarato che, grazie al surplus di bilancio accumulato dalla rigorosa Germania, il paese potrà sostenere nuove e inaspettate spese senza altri tagli alla spesa.

In Italia le analisi su costi, benefici e risorse legati all’afflusso di nuove persone – rifugiati e immigrati in cerca di lavoro che siano – scarseggiano, specialmente sui media generalisti. Per questo può tornare utile illustrare a grandi linee un dibattito sull’immigrazione in corso tra economisti americani di scuola libertaria e liberista, sulla cosiddetta teoria degli “open borders”, ovvero dei “confini aperti”. Sul Foglio ne abbiamo cominciato a discutere.

Di abbattere le frontiere per gestire al meglio l’immigrazione s’iniziò a parlare nei circoli accademici americani nel 1984, con una ricerca di Bob Hamilton e John Whalley. Il fulcro di questa tesi è ben poco moralistico: Bryan Caplan – economista della George Mason University in cui insegnò il Nobel James Buchanan e in cui oggi lavora Tyler Cowen – sostiene infatti che azzerare le frontiere è “il modo efficiente, egalitario, libertario e utilitarista per raddoppiare il prodotto interno lordo del pianeta”. Più forza lavoro a disposizione nei paesi ricchi, più consumatori da soddisfare, più imprenditori pronti a farlo, più persone che possono spostarsi lì dove le loro facoltà di imprenditore o consumatore sono meglio valorizzate, eccetera: in sintesi è questo il meccanismo virtuoso dei “confini aperti”.

Secondo Caplan e alcuni suoi allievi, annullare qualsiasi ostacolo “burocratico” alle migrazioni tra stati nazionali farebbe raddoppiare il pil del pianeta (come se ai tassi attuali sommassimo 23 anni di crescita al 3 per cento), ridurrebbe drasticamente la povertà, favorirebbe l’innovazione consentendo l’allocazione di persone lì dove servono, e infine incentiverebbe legami tali da sconsigliare guerre fra stati.

Nel 2011 Michael Clemens, del Center for global development, ha compiuto alcune previsioni. Semplificando, Clemens ha diviso il mondo in una regione “ricca” di un miliardo di persone che guadagnano 30 mila dollari l’anno e una regione “povera” in cui abitano sei miliardi di persone con un reddito medio di 5.000 dollari. “Se metà della popolazione delle regioni povere (quindi tre miliardi di persone, ndr) emigrasse, gli immigrati guadagnerebbero 23 trilioni di dollari, cioè il 38 per cento del pil mondiale. Per i non-immigrati, il risultato di una tale ondata migratoria avrebbe effetti complicati: presumibilmente, infatti, i salari medi crescerebbero nella regione povera e si abbasserebbero in quella ricca, mentre il rendimento del capitale crescerebbe in quella ricca e diminuirebbe in quella povera. (…) Ma quando si combinano questi effetti con i benefici per gli immigrati, possiamo immaginare plausibilmente un aumento positivo del pil globale compreso tra il 20 e il 60 per cento”. Di calcoli, ovvio, ce ne sono di molto meno semplificati.

Quel che è importante è che, secondo questi studiosi, nei paesi destinatari dei flussi migratori ci concentriamo troppo sui possibili costi e svantaggi di tali flussi, dagli effetti redistributivi sul welfare alla concorrenza salariale. Per i fautori degli “open borders”, invece, “certo non è assiomaticamente vero che per i paesi destinatari di immigrati i benefici saranno maggiori delle conseguenze negative; tuttavia ci sono ragioni generali per aspettarsi che i benefici supereranno le conseguenze negative nel caso delle migrazioni verso paesi altamente sviluppati, che guardacaso sono l’obiettivo della maggior parte degli immigrati”. Due le ragioni fondamentali.

Innanzitutto “se gli immigrati forniranno forza lavoro, capitale e imprenditorialità per le nuove attività nel mercato globale, certo molti dei benefici saranno condivisi dai consumatori di tutto il mondo, ma almeno alcuni dei benefici saranno concentrati nell’area in cui queste nuove attività economiche si saranno stabilite”, cioè nei paesi sviluppati. In secondo luogo, le economie ad alto contenuto di conoscenza si adattano più facilmente a nuove forme di lavoro.

Il dibattito, a suon di statistiche e stime future, si aggiorna continuamente, non soltanto a livello accademico. E se gli “open borders” possono apparire una ricetta troppo “radicale”, c’è pure da dire che tutti questi calcoli e queste analisi tornano utili anche per scenari meno estremi.



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