E’ tempo di bilanci per la gestione dell’economia americana nel corso della presidenza Obama, che ha avuto la disavventura di iniziare in coincidenza con la più profonda crisi finanziaria dal ‘29.
E’ una lezione soprattutto per l’Europa dell’austerità, segnata ancora oggi dal Fiscal Compact e dalle sterili polemiche sui margini di flessibilità di volta in volta ammissibili: ormai è un groviglio di paletti che saltano per le ragioni più disparate. Si va dalle condizioni economiche avverse alla attuazione delle riforme strutturali, passando per l’esonero degli investimenti: basta saper spingere sul pulsante giusto.
Le trattative con Bruxelles sono un suk che maschera la necessità di mantenere in piedi l’approccio fallimentare voluto dall’asse franco-tedesco, ma a cui Parigi non si è mai adeguata, accontentandosi di soggiacere a una procedura per deficit eccessivo che per il vero non le ha mai procurato alcun serio fastidio. Mentre Qe di Draghi cerca di stimolare la crescita, il Fiscal Compact provoca deflazione: l’Europa ristagna, tranne la Germania. Una conseguenza ovvia, visto che Berlino non ha dovuto ingurgitare la medicina che ha propinato agli altri, dopo aver salvato dal fallimento il suo sistema bancario autorizzando aiuti di Stato per 620 miliardi di euro, pari al 24% del Pil tedesco, di cui 252 già utilizzati.
L’economia statunitense sembra invece aver ripreso decisamente il sentiero della crescita, con il +2% pieno, stimato per quest’anno, il dimezzamento del saldo negativo della bilancia dei pagamenti correnti, al -2,2% del GDP, i corsi di Wall Street che hanno recuperato i valori pre crisi, mentre la disoccupazione è scesa al 5% della popolazione.
La ripresa americana ha avuto un costo pesante e molto c’è ancora da fare: il debito del bilancio federale è aumentato di ben 33 punti percentuali sul GDP, passando dal 72% al 105%, dai 10.720 miliardi di dollari del 2008 ai 19.042 miliardi di quest’anno, aumentando di 8.321 miliardi. Ancora quest’anno, il deficit federale sarà del 4,2% del GDP, mentre il saldo primario al netto degli interessi sarà pari al -2,17% del GDP, accumulando un -48,7% nel periodo 2008-2015. Niente a che vedere, dunque, con le tanto bistrattate finanze pubbliche italiane, che nonostante la crisi hanno registrato un saldo primario costantemente attivo, ad eccezione di un solo anno.
Il sostegno della FED è stato colossale: il suo bilancio si è quintuplicato. Rispetto agli 870 miliardi di dollari di asset dell’inizio di settembre del 2008, questo mese si è arrivati a 4.430 miliardi. La detenzione di titoli del Tesoro è passata da 479 a 2.462 miliardi di dollari, mentre quella di Mortgage backed securities (MBS’s) emesse dalle Agenzie federali è passata da zero a 1.737 miliardi di dollari.
Nel complesso, considerando il complesso degli emittenti, privati e pubblici, il valore dei bond in circolazione sul mercato è passato da 33.125 miliardi di dollari del 2008 ai 39.199 del primo trimestre di quest’anno, con un incremento di 6.074 miliardi (+18,3%). E’ un andamento paragonabile a quella del GDP nominale, che nello stesso periodo è cresciuto del 23% (di cui, +11% in termini reali). Questo incremento è però frutto di una profonda ricomposizione della platea dei debitori: a fronte di un incremento nettamente prevalente dei titoli emessi dal Tesoro federale (+6.721 miliardi di dollari) e dalle imprese private (+2.420 miliardi), gli altri settori hanno registrato una consistente contrazione delle esposizioni.
La crisi americana era scoccata per via del default delle famiglie gravate dagli eccessivi mutui immobiliari: questo andamento era rispecchiato dal mercato delle Mortgage related securities (MRS), il cui ammontare erano passato dai 4.119 miliardi del 2000 ai 9.457 miliardi del 2008, più che duplicandosi. Alla fine del primo trimestre di quest’anno, per via degli acquisti operati dalla Fed e nonostante la ripresa del mercato, erano in circolazione titoli per 8.713 miliardi, con una contrazione di 744 miliardi rispetto al picco del 2008. Le nuove emissioni di questa categoria di bond si sono praticamente dimezzate: nel 2014 sono state pari a soli 1.345 miliardi di dollari, rispetto ad un andamento che in ciascuno degli anni compresi tra il 2002 ed il 2007 non è stato mai inferiore ai 2.400 miliardi.
I debiti pubblici locali (Municipal) hanno registrato una sostanziale stabilità, essendo passati dai 3.517 miliardi di dollari del 2008 ai 3.772 del 2010, per poi contrarsi al livello di 3.694 miliardi nel primo trimestre di quest’anno. Le Agenzie federali hanno ridotto considerevolmente la loro esposizione debitoria, passata dai 3.210 miliardi del 2008 ai 1.963 miliardi nel secondo trimestre di quest’anno (-1.247 miliardi).
Il mercato monetario (MM), rappresentato dalla carta commerciale, dalle accettazioni bancarie e dai depositi bancari a lungo termine, si è a sua volta fortemente ridimensionato, passando dai 4.310 miliardi di dollari del 2007 ai 2.879 miliardi del primo trimestre di quest’anno (-1.431 miliardi). Anche il settore delle Asset backed securities (ABS) si è contratto, passando dai 1.799 miliardi di dollari del 2008 ai 1.385 miliardi del primo trimestre di quest’anno.
I bond sul mercato riferiti al settore privato dell’economia americana (MRS, ABS, CB e MM) sono dunque aumentati complessivamente di appena 286 miliardi di dollari tra il 2008 ed il primo trimestre di quest’anno (+1,4% in sei anni), con un ribilanciamento interno a favore dei Corporate bond (CB) che da soli sono invece aumentati di 2.548 miliardi. Va tenuto conto, comunque, dell’acquisto dei titoli gestiti dalle Agenzie federali che hanno come sottostante mutui immobiliari (MBS’s) operato da parte della Fed per i già menzionati 1.737 miliardi di dollari.
Il debito pubblico americano sul mercato, consolidando quello federale, quello municipale e quello delle altre agenzie federali, è passato da 12.511 miliardi di dollari del 2008 a 18.186 miliardi, con un incremento di 5.674 miliardi (+45% in sei anni). A questo importo vanno aggiunti i 1.983 miliardi di titoli federali acquistati dalla Fed nel periodo 2008-2014.
In conclusione, gli Usa stanno uscendo da una crisi finanziaria determinata dall’eccessivo indebitamento delle famiglie nel comparto immobiliare, i tristemente famosi mutui sub-prime, con una crescita economica sospinta da una forte accelerazione del debito pubblico, a sua volta sostenuto dalla politica monetaria della FED attraverso misure convenzionali e non.
Il maggior volume dei bond di debito in circolazione è quindi esclusivamente ascrivibile al solo debito federale, in quanto anche le altre componenti pubbliche hanno operato un consistente deleveraging. E’ stata una strategia diametralmente opposta a quella impostata in Europa, in cui si chiede al settore privato, in un contesto di recessione o di stagnazione, di fare da traino aumentando i propri rischi finanziari. Negli Usa, è stato il robusto e persistente sostegno pubblico all’economia ad aver convinto il sistema delle imprese a riprendere gli investimenti.
La Federal Reserve, giovedì scorso, ha deciso di tenere ancora fermi a zero i tassi di interesse per via della instabilità globale, mentre già da tempo ha cessato di immettere nuova liquidità nel sistema economico. La variabile cruciale è ormai rappresentata dall’inflazione, ancora più bassa delle attese: occorre aspettare che l’economia reale si scaldi ancora, che la occupazione migliori qualitativamente ed i salari crescano. C’è da tenere comunque sotto controllo l’indebitamento delle imprese, che continua a crescere assai velocemente: nei primi due trimestri di quest’anno, le emissioni di CB sono state rispettivamente pari a 435 ed a 450 miliardi di dollari, in accelerazione rispetto ai 300 e 330 miliardi degli ultimi due trimestri del 2014.
A questo ritmo, si potrebbero sfiorare il livello di 1.800 miliardi, un valore di emissioni pari al doppio di quello registrato nel 2009. Va comunque ribadita la contestuale stazionarietà del mercato monetario, in calo rispetto ai livelli registrati a metà dello scorso decennio in corrispondenza di più elevati tassi a breve, e la dinamica complessivamente coerente del mercato del debito complessivo con quello del GDP nominale. Nè va dimenticato che i rischi più elevati per le imprese americane ormai dipendono da fenomeni esterni, dalle crisi geopolitiche alle decisioni monetarie assunte dalle banche centrali: difficilmente prevedibili, e soprattutto evitabili.
Tra l’ottimismo che spesso si trasforma in euforia, con il rischio di nuove bolle e di default seriali, e la severità che induce alla stagnazione, l’America ha scelto ancora una volta di ricominciare. Meglio correre, rischiando di cadere, che rimanere fermi per paura: la differenza con l’Europa sta tutta qui.