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Se i social diventano network, i giornali che fine faranno?

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Chissà se gli editori hanno capito che quando i social diventano network delle notizie che i primi producono e i secondi diffondono, si chiude un cerchio tra lettori e fruitori di Internet che segna la fine dei giornali. Semplicemente perché potrebbero non servire più con la loro inutile carta. Eppure noi occidentali siamo arrivati a vivere l’età del benessere proprio grazie alla virtù della conoscenza. E questo lo sa bene proprio chi muove da sempre le fila della finanza o governa un grande Paese.

Si dice che senza l’uso dei piccioni viaggiatori che gli permisero di sapere ben prima degli altri della sconfitta di Napoleone a Waterloo, i Rothschild non sarebbero infatti mai diventati dei banchieri così ricchi. E se un piccolo cronista non si fosse insospettito per una banale effrazione in un grande albergo della capitale, Richard Nixon non si sarebbe mai dimesso dopo una lunghissima e solitaria campagna di stampa del Washington Post. Bisogna ancora spiegare perché l’informazione è il cardine delle nostre vite, prima che delle nostre economie? Io credo di si’ – e ho provato a spiegarlo nel mio ultimo libro Sboom – perché anche in questo settore, come in quello delle compravendite finanziarie e dei processi industriali, la web revolution ha giocato un ruolo fondamentale e tutto è cambiato.

Parafrasando Shakespeare, si potrebbe dire che la rete vive della sostanza di cui sono fatti i giornali come gli uomini sono intrisi della materia dei sogni: se si considera la capitalizzazione di borsa di giugno 2015 e il numero di clienti, i dati personali valgono in media 405 dollari ciascuno per Google e 194 dollari per Facebook. E’ un calcolo semplice e altri se ne potrebbero fare, ad esempio moltiplicando i ‘’like’’ per i ricavi dalle pubblicità che si ricevono poi per mail. Così si spiegano poi l’acquisizione di WhatsApp e i piani telefonici di Facebook, i progetti bancari di Apple, la scelta di Google di diventare operatore tlc e di veicolare notizie attraverso Twitter. Sono tutte operazioni che certificano come le conversazioni tra privati e le loro identità abbiano ormai un alto valore commerciale, superiore al petrolio e al gas, perché anticicliche. Peggio vanno infatti le cose e maggiore è il prezzo di queste nuove commodities nel pianeta dei telefoni, dove l’80% dei terrestri in età adulta entro cinque anni avrà un super pc in tasca.

Non deve quindi stupire che gli over the top si spingano sempre più nel territorio dell’informazione: interessano i lettori, il loro Dna, più che le notizie. Così come ai produttori di automi interessa abbattere i costi di produzione e non solo alleviare la fatica degli uomini. Anche in Italia, Paese arretrato per la penetrazione di Internet ma all’avanguardia nell’utilizzo dei devices di ultima generazione, operatori quali Twitter vengono già oggi consultati dagli utenti per informarsi molto più di portali storicamente preposti a questa funzione e finanziati unicamente con la pubblicità.

Le notizie lasciano per sempre la carta stampata per entrare nel circuito digitale, diventano informazioni che hanno un prezzo. Ma i profitti non vengono più incassati dagli editori tradizionali. Per intervenire prima che questo Sboom prenda il sopravvento e sia inarrestabile, serve un radicale cambio di mentalità, a maggior ragione nei nostri confini. In Italia l’incidenza in termini di volumi delle copie digitali nell’editoria nel suo complesso è pari a circa il 4,5% delle copie totali, mentre il valore del fatturato da vendita di prodotti e servizi digitali è pari a circa il 2% del totale dei ricavi da vendita di prodotti e servizi editoriali. Altro che rivoluzione digitale.

Questa discrepanza è dovuta al fatto che il prezzo medio delle pubblicazioni online è molto più contenuto delle copie cartacee, sia per i minori costi connessi alla stampa sia per il fatto che i prodotti digitali, essendo ancora in fase di lancio, sono soggetti a promozioni che ne riducono il ricavo medio. Aumentano le vendite ma i ricavi crescono della metà. E la pubblicità, compresa quella online, ormai supera appena il 40% del fatturato complessivo. Le copie diminuiscono, i ricavi flettono, l’advertising retrocede nonostante Internet, i social network si sostituiscono alle tradizionali fonti informative.

Il giornale online, com’è concepito oggi, non sembra in grado di frenare la deriva. Le copie di quotidiani comprate in formato digitale sono pari a circa 65 milioni e rappresentano il 6,3% sul totale delle copie vendute: ma si tratta, nella maggior parte dei casi, di un fenomeno di sostituzione del prodotto cartaceo con quello digitale, piuttosto che di un ampliamento della platea dei lettori. Negli ultimi cinque anni in Italia si è registrata una progressiva riduzione dei ricavi nel settore dell’informazione: i media “classici” (quotidiani, tv, radio) hanno complessivamente perso quasi 2 miliardi di euro, con una riduzione pari al 16% nel periodo 2010-2014, con punte superiori al 30% nel caso dei quotidiani. E’ un chiaro effetto della digitalizzazione.

Spostare quindi la produzione giornalistica dematerializzandola, senza modificare i modelli di business, può portare a un calo ulteriore del fatturato. I costi per le grandi case editrici, che puntano con decisione sulle versioni online del quotidiano, tolta la carta e i benefici derivanti dall’inevitabile riduzione del personale, restano piuttosto incomprimibili, a fronte di una riduzione dei ricavi, sia dalla pubblicità (che vale meno rispetto a quella tradizionale), sia dalle vendite. Offrire sul web lo stesso prodotto a prezzi scontati è un tuffo in mare con una pietra al collo. Come se Apple vendesse ancora il telefono con cornetta a prezzi stracciati: per quello ci sono i negozi vintage.

Il mare di Internet è invece pieno di insidie con una sola certezza: è lo smartphone la nuova ‘’tele-edicola’’ e chi lo usa è il nuovo ‘’lettore-spettatore’’. Nella patria di Dante circa 34,8 milioni di soggetti hanno la possibilità di accedere a Internet da almeno un device o una location. E naviga da smartphone e tablet il 34,8% degli individui, prevalentemente giovani (oltre il 92% ha tra gli 11 e i 34 anni, persone che probabilmente non si sono quasi mai avvicinate a un’edicola). Il tasso di penetrazione, inoltre, supera il 90% per i laureati.

Se si vuole raggiungere questi potenziali lettori, adottando una logica propositiva e non difensiva (come accaduto nel settore musicale), si può provare a reimpostare il sistema secondo tre direttrici: revisione del modello di business, come insegna l’esperienza del New York Times; creazione di nuove realtà editoriali leggere, start up collegate alle testate storiche ma indirizzate esclusivamente al nuovo prodotto; predisposizione di un nuovo prodotto editoriale pensato esclusivamente come applicazione per gli smartphone e i tablet.

Serve un’offerta dai connotati dirompenti, perché le notizie e i dati personali, come i sogni shakespeariani, sono ormai il concime naturale di tutto ciò che si trova in rete. E il concime, come la terra, si paga. Gli italiani hanno inventato il telefono, la pila e il pc. Non gli dovrebbe mancare il coraggio di provarci di nuovo.

(articolo estratto da “Sboom, sappiamo ancora sostenere il cambiamento?” Giovanni Fioriti Editore)

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