Cosa va e cosa non va in questo inizio di anno scolastico. Ma è ora di dire basta ai “sindacatini”
“Bene l’immissione in ruolo. Nessuna deportazione di insegnanti. Irrealizzabili le quote per stranieri in classe». Parla Pellegatta (DiSAL)
«Incertezza e confusione. Ecco come abbiamo vissuto noi presidi il primo giorno di scuola dopo la riforma. Ma in fondo è quello che viviamo ogni anno. La novità delle immissioni in ruolo invece ci dà forte soddisfazione»: questa la “pagella” del mondo istruzione di Roberto Pellegatta di DiSAL, l’associazione dei dirigenti scolastici statali e non.
Perché, secondo quanto risulta a DiSAL, i capi di istituto hanno vissuto nella confusione?
In buona parte per le circolari applicative della riforma, che rimangono sempre nebulose. C’è incertezza, ad esempio, su come organizzare l’alternanza scuola-lavoro, prevista dalle norme ma ripresa nelle circolari con passaggi poco chiari. Ci sono, inoltre, alcuni articoli della legge 107 che impediscono ai dirigenti la sostituzione di insegnanti o impiegati assenti, e ciò crea problemi per l’assegnazione delle cattedre. D’altra parte, però, davanti a questa riforma, c’è una forte soddisfazione.
Cosa promuovete in particolare della “Buona scuola”?
Che ha introdotto la più grande immissione in ruolo che si sia vista negli ultimi decenni. Dare stabilità agli insegnanti, in particolare nelle statali, significa rendere solido il lavoro dell’intera scuola italiana. Non c’è nulla di più precario di un istituto tecnico o una scuola media dove ogni anno si deve attendere la nomina del 40 per cento dei docenti, come accadeva, di fatto, fino allo scorso anno scolastico. La stabilità dei professori è un elemento importante anzitutto per gli alunni e trovo strano che proprio i sindacati oggi protestino contro la più grande immissione in ruolo e contro 108 mila assunzioni a tempo indeterminato.
Però Repubblica scrive che 4 neo assunti su 5 sono rimasti a casa, approfittando delle supplenze, e di buchi nell’organico in particolare in regioni come la Lombardia.
Al momento il ministero non ha ancora fornito dati su quanti neo assunti abbiano preso l’aspettativa, accettando una supplenza. L’ultimo dato ufficiale che ha dato il ministro Stefania Giannini è che il 15 per cento di coloro che hanno accettato la cattedra nella fase B sarebbero in “mobilità”. In parole povere, è emerso che non siamo davanti a nessun esodo catastrofico, eppure su quest’aspetto i quotidiani hanno sparato cifre a caso. Si va dai 7 mila docenti “deportati” secondo Repubblica ai 3 mila di cui ha parlato Italia Oggi. Stime arbitrarie. La stessa cosa possiamo dirla in relazione ai presunti “buchi” nell’organico dovuti a chi avrebbe accettato il ruolo ma rinviato all’anno prossimo la presa di servizio per mantenere la supplenza. Non c’è nessuna emergenza in corso, per quanto risulta a noi presidi. Vorrei solo aggiungere una valutazione.
Prego.
Finora è stato balordo il sistema di reclutamento dei docenti. Dal 1861 a circa dieci anni fa si è proceduto con le graduatorie nazionali. Un sistema voluto dalla politica, e conservato da burocrati e sindacati, che è stato la causa di tutti i disastri nel mondo dell’istruzione. Se fosse in vigore l’autonomia scolastica e ogni istituto reclutasse il personale di cui ha bisogno direttamente, non ci sarebbero problemi.
I sindacati quest’estate hanno parlato di una “deportazione” di insegnanti dal Meridione al Settentrione. Che ne pensa?
Trovo la parola “deportazione” assurda per descrivere quello che sta avvenendo. Nessuno ha deportato nessuno. Per decenni docenti del Sud, liberamente, hanno scelto di andare a lavorare al Nord, senza che nessuno abbia mai parlato di deportazione. Ho in mente anche molti colleghi presidi della Lombardia, che hanno iniziato a lavorare separandosi dalla famiglia e andando a lavorare, per esempio, in Sardegna. Per questo ritengo che la parola “deportazione” sia stata usata dai “sindacatini” – e non da chi come sindacato vuole rappresentare gli insegnanti seriamente – per far polemica, offendendo generazioni di professori che si sono spostate per l’Italia. Semmai in questi giorni è un altro l’elemento di disagio nella scuola.
Quale?
La decisione dei confederali, presa con tanto di comunicato, di fare un’assemblea sindacale di lotta alla riforma il primo giorno di scuola. Si può non condividere la nuova legge, ma si deve smettere di usare gli studenti come merce di scambio per reclamare più potere. Il vero motivo dello scontro con il governo è semplice anche se nessun sindacalista lo esplica. I confederali si sono sentiti esclusi dal governo nella concertazione mentre, com’è giusto che sia, il potere esecutivo si è preso la responsabilità di fare una legge. È ora che la conflittualità sulla pelle della scuola finisca.
Cosa le hanno raccontato i colleghi dirigenti scolastici, sull’inizio di un nuovo anno in scuole dove arrivano tanti docenti di ruolo magari sconosciuti?
L’arrivo di nuovi insegnanti è una prassi che viviamo già da tempo e ogni anno. Ci sono molti istituti, anche statali, dove i colleghi più “anziani” accolgono e introducono i neo arrivati al lavoro comune. Chi fa la differenza davvero sono le persone, il dirigente e il gruppo docenti di ogni scuola e questo varrà anche quest’anno. Cito un episodio che è esemplificativo di quanto può accadere adesso con le immissioni in ruolo. C’è un istituto comprensivo di Lissone dove sono appena arrivati molti nuovi insegnanti. Hanno iniziato a lavorare subito insieme ai colleghi più anziani e questo ha portato alla svolta. Lissone comincia fin dal primo giorno con l’offerta di un orario completo di sei ore, mentre nel passato, mancando gli insegnanti e dovendosi attendere la nomina dei supplenti, si doveva cominciare con un orario ridotto perché non si riusciva a coprire tutte le sei ore. Non è una cosa da poco.
Dopo il caso della scuola di Brescia, con due prime elementari interamente composte da stranieri, il segretario della Lega Salvini chiede di introdurre delle quote. Cosa ne pensa?
Un bello slogan ma impraticabile. È facile da enunciare, “mettiamo un tetto agli stranieri”, ma a prescindere dall’essere d’accordo o meno, non si può attuare. Inoltre non ha nulla a che fare con la vita della scuola. In periferia di Milano conosco istituti dove gli studenti stranieri raggiungono il 60 per cento. Come si fa a fare le classi con il tetto laddove ci sono solo stranieri?
Avere tanti alunni non italiani è un problema o una risorsa?
Certo che è un problema. Ma può essere un problema trovarsi anche ad una classe piena di ragazzi intelligenti: anche in quel caso un insegnante può trovarsi spiazzato. Scherzi a parte, la difficoltà nella scuola è proprio di fare i conti con le differenze, qualsiasi esse siano: ma il punto sta proprio nell’arte di trasformare un problema in risorsa. Gli studenti stranieri sono persone e come tali risorse. Le proposte che noi facciamo sono collegate alle specifiche tipologie didattiche, ad esempio si possono offrire corsi di lingua italiana e sportelli di aiuto nell’orario pomeridiano. Sono strumenti che hanno funzionato bene finora. Le vere difficoltà penso siano piuttosto altre.
Quali?
Uno dei problemi più grossi, che da sette anni rende difficile l’avvio delle lezioni, è legato alle dimensioni. In questi anni infatti le scuole sono state trasformate in istituti comprensivi da 1.500 alunni, che di fatto sono ingovernabili. In Italia abbiamo 8.100 istituzioni scolastiche statali, in Francia con una popolazione simile alla nostra ce ne sono 16.000. Significa che le scuole sono più piccole e gestibili. Ecco, questo è un problema su cui chiederei più attenzione. Inoltre andrebbero banditi nuovi concorsi, perché l’età media dei docenti e dei presidi è molto alta. La maggior parte dei prof oggi ha circa 52 anni, 55 anni invece i dirigenti scolastici. Un bel problema per un mondo che si fonda sull’incontro con i più giovani. C’è inoltre da ricordare il fatto che ancora oggi 1.800 istituti su 8.100 sono senza presidi. Tempo fa ho incontrato il dirigente di un plesso dell’Emilia-Romagna, che ha in reggenza anche un secondo istituto, e mi raccontava che deve gestire 3mila studenti. Condizioni di lavoro del genere rendono difficile qualsiasi iniziativa. Grazie a Dio continuano ad esserci un gran numero di insegnanti e presidi che vivono con grande passione il loro mestiere. Sono loro la salvezza della scuola.
di Chiara Rizzo – Tempi.it 17 settembre 2015