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La lezione di Lincoln nelle parole di Papa Francesco

Dopo l’intervento di Papa Francesco al Congresso degli Stati Uniti d’America e il suo riferimento – tra gli altri – ad Abraham Lincoln, ho pensato che fosse giunto il momento di recuperare nella libreria una vecchia raccolta con alcuni tra i discorsi più celebri del Presidente statunitense. Papa Francesco ha ricordato, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’assassinio di Lincoln, di come questi sia stato “il custode della libertà” e di come abbia “instancabilmente” operato affinché “questa nazione, con la protezione di Dio, potesse avere una nuova nascita di libertà”. Così il Pontefice ha potuto riaffermare l’idea, ben consolidata nel Magistero sociale della Chiesa e sviluppata da Papa Benedetto XVI mediante la nozione di “via istituzionale della carità”, che, in ordine ai processi di “institution building”, “Costruire un futuro di libertà richiede amore per il bene comune e collaborazione in uno spirito di sussidiarietà e solidarietà”.

È in questo contesto che il riferimento del Papa al Presidente Lincoln assume un carattere del tutto particolare e forse ancora poco esplorato. Basti pensare che l’enciclopedia teologica post conciliare Sacramentum Mundi (1969), con riferimento alla sussidiarietà, riporta di quel principio la seguente prima definizione, proprio di Abraham Lincoln: «l’oggetto legittimo del governo è realizzare quello che una comunità avrebbe dovuto fare, ma che non è stata in grado di fare, o quello che i singoli non possono fare da soli, facendo appello alle proprie capacità. Ma il governo dovrebbe evitare di interferire in tutto quello che la gente può e sa fare da sé». È questo un passaggio significativo, in quanto l’autore, oltre a delimitare i confini dell’azione di governo, impegna la società civile e le comunità che la compongono nel delicato compito di costruire le istituzioni, praticando l’arte dell’autogoverno che necessita di alcune virtù fondamentali.

Tali virtù saranno indicate in un celeberrimo discorso dell’allora giovane avvocato. Era il 27 gennaio del 1838, Lincoln aveva 28 anni e si era da poco trasferito a Springfield, nell’Illinois. La sua carriera politica era agli inizi e, in occasione dell’assemblea di un’associazione giovanile, pronunciò uno dei suoi discorsi più belli e ispirati. Una appassionata difesa del rule of law, presentato come il baluardo indispensabile a salvaguardia delle istituzioni politiche, della civile convivenza e del bene comune: “The Perpetuation of Our Political Institutions”. Il contesto storico di quel discorso era dato da una serie interminabile e orrenda di violenze contro i neri e contro coloro che sostenevano l’abolizione della schiavitù. Lincoln vide in tutta quella violenza una minaccia per la tenuta democratica delle istituzioni americane, del “governo della legge”, così come erano state pensate ed edificate dai Padri fondatori, e giunse ad affermare che gli Stati Uniti non avrebbero avuto mai nulla da temere dalle potenze straniere, in quanto gli unici possibili nemici, realmente capaci di abbattere la Nazione americana e la sua prosperità, sarebbero stati gli americani stessi, qualora avessero abbandonato il “governo della legge”.

Il rule of law difeso da Lincoln è rappresentato da un complesso di istituzioni che, nel corso della storia, ha dimostrato di preservare e promuovere, meglio di qualsiasi altro, il sistema delle libertà e la prosperità della stragrande maggioranza della popolazione. La sua difesa e la sua promozione esprimono il compito che Lincoln riconosce al popolo statunitense, un atto di gratitudine nei confronti dei padri, un dovere di giustizia per se stessi e per coloro che verranno, nonché un atto d’amore per il genere umano. Ebbene, di fronte ad un simile compito, Lincoln intravede un solo nemico, l’incuria istituzionale dello stesso popolo statunitense: «Qualora la distruzione dovesse essere il nostro destino, saremmo noi stessi gli autori e i rifinitori. Dal momento che siamo una nazione di uomini liberi, siamo chiamati a vivere da uomini liberi, oppure a suicidarci».

Il problema posto da Lincoln non è poi così distante dal tema sollevato da Francesco durante il suo discorso al Congresso degli Stati Uniti e rinvia anche alle nostre attuali preoccupazioni rispetto alle temute invasioni e alla possibile perdita della nostra identità occidentale e cristiana. Afferma Francesco: «Siamo tutti pienamente consapevoli, ed anche profondamente preoccupati, per la inquietante odierna situazione sociale e politica del mondo. Il nostro mondo è sempre più un luogo di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione». Il Papa ci mette in guardia dal rischio che la religione possa assumere forme di fondamentalismo o di estremismo ideologico, nella consapevolezza che nessuna idea – religiosa o meno – possa considerarsi del tutto immune da una simile deriva. Oltretutto, la pretesa che si possa dar vita ad un ordine nel quale “sia impossibile il male” – per dirla con le parole di Giovanni Paolo II –, condurrebbe ad un insensato riduzionismo che, afferma Papa Francesco, “vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori” e continua: “Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate”.

È a questo livello della discussione di Papa Francesco, preoccupato, al pari di Lincoln, più per il sempiterno nemico interno che per il potenziale nemico esterno, che possiamo inserire il peculiare contributo del Presidente statunitense. Nel discorso del 1838, Lincoln invita ogni americano, ogni amante della libertà e ognuno che abbia a cuore il destino della propria famiglia a non violare le istituzioni del Paese e a non farsi complice delle violazioni altrui. Invita ogni americano ad impegnare la propria vita e i propri beni a difesa delle istituzioni: “Fate sì che ogni uomo ricordi che, violando la legge, finirà per calpestare il sangue di suo padre e per sradicare il carattere e la libertà suoi e dei suoi figli. […] Fate sì che sia insegnata nelle scuole, nei seminari e nei collegi; sia scritto sugli abbecedari, sui libri di grammatica e sugli almanacchi. Fate sì che sia predicata dal pulpito, proclamata nelle aule legislative ed eseguita nelle corti di giustizia. In breve, fatela diventare la religione politica della nazione e fate sì che, tanto l’anziano quanto il giovane, il ricco quanto il povero, il coraggioso quanto il pavido, a prescindere dal sesso e dalla lingua, dal colore della pelle e dalla condizione sociale, incessantemente sia disposto a sacrificarsi sul suo altare”.

È una formidabile difesa e promozione del rule of law, di quel “governo sotto la legge” che è alla base del carattere inclusivo delle istituzioni sociali e della prosperità delle nazioni. Sono le regole che ci dicono se il potere è concentrato nelle mani di pochi neofeudatari, i quali operano da oligarchi e monopolisti senza limiti e solo per il proprio interesse contro quello della maggioranza, ovvero se lo stesso potere è distribuito, diffuso e ordinatamente posto entro limiti costituzionali. Quando il potere è distribuito e democraticamente disponibile, non concentrato e soggetto a regole certe, allora abbiamo a che fare con un assetto politico istituzionale di tipo pluralista e inclusivo (rule of law): un’economia di mercato popolare e democratica che si contrappone al sistema istituzionale “estrattivo” che invece contraddistingue le realtà di capitalismo corrotto e clientelare (crony capitalism) tipico dei paesi dell’America Latina, ma non solo. Ebbene, proprio “inclusione” rappresenta la parola d’ordine per uno sviluppo umano integrale, ossia dinamico e duraturo; che poi altro non è che il cuore dell’enciclica di Papa Francesco Laudato si’. In definitiva, il filo rosso che lega tutta la riflessione di Papa Francesco sulla questione sociale e che esprime anche il ponte che unisce il Magistero sociale di almeno tre degli ultimi Pontefici. Includere significa condividere, partecipare, passare dalla condizione di estraneo e di disadattato a quella di integrato e di soggetto attivo; in pratica, significa passare dalla condizione di suddito a quella di cittadino sovrano.

Ecco, dunque, le virtù che Lincoln indicava come indispensabili caratteri per la difesa e la promozione della libertà: “ragione, autocontrollo, ponderazione e prudenza”. È necessario che tali virtù siano impresse nella cultura di un popolo e nella moralità di buona parte dei suoi cittadini. È questa la precondizione affinché la politica, l’arte di cogliere il possibile, per andare oltre i confini di quanto già sperimentato nel passato, sia percepita autenticamente come “la più alta forma di carità” (Paolo VI). A questo punto, possiamo concludere con le parole dello stesso Lincoln: “Su tutto ciò – ragione, autocontrollo, ponderazione e prudenza – lasciate che il fiero ordito della libertà riposi, come la roccia sulla sua base; e come invero è stato detto dell’unica grande istituzione: ‘le porte degli inferi non prevarranno’”.

(dal Il Foglio, 29 settembre 2015)


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