Dati nel complesso piuttosto positivi, quest’oggi, per il mercato italiano del lavoro.
Andando in ordine sparso, la stima preliminare del mercato del lavoro in luglio mostra un sostanzioso e sostanziale calo della disoccupazione, dal 12,5%, rivisto al ribasso dall’originario 12,7% al 12%, gli occupati aumentano di 44mila unità nel mese e di 235mila sull’anno, i disoccupati calano di 143mila unità nel mese, mentre gli inattivi aumentano di 99mila. Lieve miglioramento anche per la situazione dei giovani nella fascia 15-24 anni.
Più interessante guardare al dato finale del secondo trimestre. Il totale degli occupati cresce di 180mila unità rispetto allo stesso trimestre del 2014, pari allo 0,8%. Di essi, 139mila sono a tempo pieno. Un dato non positivo è quello relativo agli occupati a tempo parziale, in aumento annuo di 41mila unità, pari all’1%. In sette casi sui dieci si tratta di part time involontario, cioè forzato dalla mancanza di opportunità a tempo pieno, ed indica un mercato del lavoro ancora molto fragile e tutt’altro che stabilizzato.
Veniamo a indagare l’impatto del Jobs Act o di altre variabili sin qui ignorate. Commenta Istat:
«Nel secondo trimestre 2015, a ritmo più sostenuto, continua l’aumento su base annua del numero di dipendenti a tempo indeterminato (+0,7%, 106 mila unità); l’incremento riguarda gli ultra 50enni e interessa soprattutto le donne, il terziario, il Centro e il Mezzogiorno. Ininterrotta da cinque trimestri, prosegue l’incremento del numero di dipendenti a termine (+3,3%, 77 mila su base annua) che coinvolge soprattutto gli uomini, le regioni del Mezzogiorno e l’industria in senso stretto. L’incidenza dei dipendenti a termine sul totale degli occupati sale al 10,7% (era 10,4% un anno prima). Di contro, i collaboratori diminuiscono dell’11,4% (-45 mila unità)».
Quindi, in sintesi: aumentano i rapporti a tempo indeterminato ma questo non significa che sia merito del contratto a tutele crescenti visto che, come segnala Istat, tra le categorie interessate dall’aumento vi sono gli ultracinquantenni, verosimilmente per permanenza sul posto di lavoro a seguito delle modifiche alla legislazione pensionistica e non, come invece interpreta il buon Renzi nel suo videomessaggio Facebook di stamane, come conseguenza “della nuova chance data dal Jobs Act” (ma queste come ti vengono, presidente?). Questo dato anagrafico si ritrova anche nell’analisi dello stock di inattivi, il dato a nostro giudizio più interessante e meno rassicurante. Ancora parola a Istat:
«Nel secondo trimestre 2015, ininterrotto da sei trimestri, prosegue con maggiore intensità il calo tendenziale della stima del numero di inattivi tra 15 e 64 anni (-1,9%, -271 mila unità), alimentato più dagli uomini che dalle donne. La riduzione, dovuta a tutte le classi di età, riguarda soprattutto i 35-54enni (-1,5%, -61 mila) e i 55-64enni (-5,0%, -194 mila)»
Quindi, sull’anno, la coorte over 55 pesa per il 71% del calo degli inattivi. Non male, anzi non bene, no? Ed ecco la spiegazione più verosimile:
«Prosegue la forte riduzione delle persone ritirate dal lavoro o non interessate a lavorare (-7,2%, 238 mila unità in meno); in quasi nove casi su dieci la diminuzione coinvolge i 55-64enni ed è generata anche dall’innalzamento dell’età pensionabile»
Il tutto con questa premessa:
«La riduzione del numero di inattivi tra 15-64 anni è dovuta quasi del tutto alla componente più distante dal mercato del lavoro, vale a dire coloro che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare (-3,5%, 371 mila in meno), e in lieve misura a quanti cercano un impiego ma non sono immediatamente disponibili a lavorare (-11,6%, 33 mila in meno)»
Quindi, per sintetizzare: il calo degli inattivi è di qualità molto bassa, e solo in minima parte riconducibile alla rivitalizzazione del mercato del lavoro indotta dalla ripresa. Su tutto, le nuvole cupe del rallentamento cinese, che è destinato a riverberarsi sui dati di attività globale, con il crollo dei prezzi delle materie prime che porta con sé il deterioramento delle ragioni di scambio dei paesi emergenti, con caduta dei loro tassi di cambio e distruzione della loro domanda di importazioni, cioè dell’export dei paesi sviluppati, tra i quali noi. Elemento che non depone benissimo per l’evoluzione della congiuntura dell’Eurozona.