Doveva essere il presidente anti-guerra, quello che avrebbe posto fine alla politica troppo aggressiva di Bush e Cheney. Avrebbe riportato a casa le truppe dal Medio Oriente e cancellato le misure interne che ledevano le libertà personali. Ma nel suo primo mandato Barack Obama non ha impresso un cambiamento fondamentale alla politica di sicurezza degli Stati Uniti: ha sì cominciato il ritiro dall’Iraq, ma su tanti altri punti ha rappresentato invece la continuazione della politica precedente, dall’Afghanistan ai droni ai metodi di sorveglianza molto discutibili dal punto di vista costituzionale.
Nelle presidenziali del 2008 il giovane Senatore Obama aveva capito gli umori del paese. Mentre Hillary Clinton si presentava come quella più preparata e pronta per l’incarico, Obama puntò sui contenuti: basta con le guerre di Bush, è meglio avere ragione che avere esperienza. Clinton si limitò a seguire il solito copione dei candidati democratici alla Casa Bianca: dimostrare di essere duri e liberi dai condizionamenti della sinistra, per guadagnare il sostegno dell’establishment e del centro dell’elettorato.
Obama invece guardava nell’altra direzione, mobilitando giovani e delusi e promettendo un grande cambiamento. Data la sua mancanza di esperienza dovette anche lui offrire delle garanzie però, e così fece segno al palazzo di non essere in verità troppo pericoloso: rimase sul vago in tema economico e corteggiò i grandi interessi finanziari, e per quanto riguardava la difesa fece capire che non era certamente un pacifista. Avrebbe posto fine alla guerra in Iraq, ma si sarebbe concentrato di più sull’Afghanistan e sulla caccia senza sosta ai terroristi.
I PRIMI ANNI DI OBAMA
Una volta arrivato alla Casa Bianca il nuovo presidente si scontrò subito con le pressioni dell’establishment politico e militare. La schiacciante vittoria alle elezioni e le speranze di cambiamento ovviamente non bastarono per bloccare l’inerzia del grande apparato dello Stato. Così quando ebbe dei dubbi sull’escalation in Afghanistan si trovò contro quasi tutti i consiglieri (con la nota eccezione del vicepresidente Biden). Obama prese tempo, rimandando la decisione di alcuni mesi, ma alla fine ordinò un aumento consistente delle truppe facendo capire che un cambiamento di rotta era ancora lontano nel tempo.
La situazione ricordava quella di un altro giovane presidente di molti anni fa: quando John F. Kennedy arrivò alla Casa Bianca si rese conto ben presto della difficoltà di imprimere una svolta vera. Ci volle oltre un anno prima che JFK riuscì a prendere in mano la politica militare americana, decidendo per esempio – purtroppo senza seguito a causa del suo assassinio – di invertire la rotta in Vietnam. Ma nonostante la sua morte, in meno di 3 anni alla Casa Bianca Kennedy si mosse in modo talmente efficace da lasciare un’immagine di cambiamento ormai impressa nella storia.
Obama invece, a causa anche della sua dichiarata volontà di unire il paese, piuttosto che litigare continuamente con gli avversari, spesso non si batte fino in fondo per le proprie politiche, preferendo il compromesso e accontentandosi di progressi incrementali, talvolta accettando anche dei passi indietro.
Su numerosi temi, da Guantanamo alla Libia alle operazioni di sorveglianza le sue azioni furono lontane dai suoi proclami pubblici. Ovviamente ci furono molti altri fattori contingenti e i “poteri forti” si mossero in modo deciso, ma fu evidente la differenza con i presidenti come JFK o Lincoln, a cui guardava come ispirazione.
Se dovessimo riassumere l’atteggiamento di Obama nei suoi primi anni alla Casa Bianca potremmo definirlo un guerriero riluttante, facilmente influenzato dalle pressioni interne ed esterne e lontano da quello che si aspettava l’America e il mondo.
SVOLTA IN SIRIA
La possibilità di una svolta si presentò nel 2013. Fu allora che la fazione dei neocon e degli interventisti di sinistra dentro l’Amministrazione quasi riuscirono a raggiungere un obiettivo su cui avevano lavorato per anni: l’intervento militare in Siria, un ulteriore tassello del regime change per il Medio Oriente.
Con l’intelligence dubbia e forti pressioni nei media Obama arrivò vicinissimo all’ordinare l’attacco aereo, sventato all’ultimo momento grazie all’opposizione interna (al Congresso e ai vertici del Pentagono) e all’intervento del presidente russo Vladimir Putin. Si concluse l’accordo sulla rimozione delle armi chimiche e da quel momento in poi l’Amministrazione Usa ha adottato la linea che non c’è soluzione militare alla crisi siriana. Rimangono molte ambiguità, considerando la collusione tra i gruppi di opposizione e gli estremisti, e le operazioni degli alleati come l’Arabia Saudita, ma sembra reggere il fragile accordo dietro le quinte con la Russia per trovare una soluzione diplomatica per il paese, facendo leva sulla necessità di collaborare nella battaglia contro l’ISIS.
E’ proprio l’emergere di quest’ultima formazione che – ironicamente – ha permesso di fare ulteriori passi nella direzione della diplomazia. E’ ormai evidente che gli interventi militari degli ultimi anni, dall’Iraq alla Libia, hanno solo peggiorato la situazione. Occorre lavorare insieme anche ai “nemici” per combattere lo Stato Islamico, e dunque si sono riaperti canali importanti con l’Iran e con la Russia, seppur timidi e limitati.
IRROMPE L’UCRAINA
Dopo il dietro front sulla Siria le condizioni sembravano mature per accantonare definitivamente la politica di cambiamento di regime, ma questa volta fu un altro progetto a lungo termine dei neocon a travolgere il presidente: l’Ucraina.
Come ha detto apertamente la vicesegretaria di stato Victoria Nuland, il Governo americano ha speso oltre 5 miliardi di dollari per promuovere i gruppi pro-Occidentali in Ucraina negli ultimi 20 anni. Ed è solo una parte degli sforzi profusi se si considerano le operazioni di George Soros, della National Endowment for Democracy e dei vari altri gruppi europei (soprattutto britannici) che nei decenni dal crollo dell’Unione Sovietica hanno guidato la campagna per allargare i valori della libertà – nel loro caso intesi soprattutto come i valori del libero mercato e della finanza – nelle aree ad influenza russa. Dalle prime rivoluzioni colorate al fiasco della Georgia nel 2008, non sono mancate le spinte a sfidare apertamente la Russia anche in termini militari.
Dunque quando esplose la protesta a Piazza Maidan nel 2014 questi stessi interessi intervennero per approfittare della situazione, sostenendo quello che è stato definito da alcuni “il golpe più evidente della storia”.* Come spesso succede le giuste istanze democratiche vennero sfruttate per altri fini, portando alla situazione di tensione e pericolo tra la Russia e l’Occidente di questi mesi.
Per quanto riguarda il ruolo del Presidente Obama, il dato più importante è di come il contesto che portò all’esplosione ucraina fu definito anni prima; Obama, impreparato e senza il pieno controllo della propria Amministrazione, si è trovato a recitare la sua parte in un copione scritto da altri.
I risultati sono noti: in Occidente si dibatte su quanto aiutare l’Ucraina a livello militare, i russi minacciano ritorsioni, ed è aumentato fortemente il rischio di scontri ed errori di calcolo tra le più grandi potenze nucleari mondiali.
LA SVOLTA DIPLOMATICA
Nell’ultima fase della sua presidenza però Obama si è dato da fare su alcuni fronti importanti. Quello principale è l’accordo con l’Iran. Nonostante l’insuccesso dei primi tentativi nel 2009 – dovuto anche a fattori fuori dal suo controllo – il Presidente ha insistito sull’obiettivo dando via alle trattative segrete nel 2013. Ha effettivamente neutralizzato il premier israeliano Benjamin Netanyahu e contro ogni precedente sta per vincere la sua battaglia contro le pressioni dell’Associazione AIPAC, il gruppo pro-Israele iperconservatore che esercita una fortissima influenza sulla politica americana.
Obama si è mosso anche su Cuba, riaprendo le relazioni diplomatiche dopo mezzo secolo di chiusura e di embargo. L’importanza in termini strategici è limitata, ma anche qui si scorge una volontà di portare finalmente a casa dei risultati, a prescindere dalle pressioni esterne.
LE PRESIDENZIALI DEL 2016
Obama è nell'”ultimo quarto” della sua presidenza. Non deve essere rieletto e anche per questo sembra essersi liberato da certe preoccupazioni politiche, intraprendendo iniziative su cui aveva tergiversato in passato.
Non è certamente immune dalle pressioni dell’establishment, e si possono discutere molte delle sue posizioni. Ma non si può negare che ha mosso alcuni passi decisi, seppur parziali, sulla strada della soluzione diplomatica ai conflitti. Non gli rimane molto tempo alla Casa Bianca però, poco più di un anno alle prossime elezioni presidenziali. Cosa succederà a queste iniziative a partire dal gennaio 2017, quando il nuovo presidente si insedierà nello Studio Ovale? L’Amminstrazione Obama avrà determinato un cambiamento duraturo, o le recenti iniziative finiranno per essere eventi minori che non alterano la direzione generale degli ultimi 15 anni?
Per capirlo occorre guardare i nomi di chi ha più chance a vincere le prossime elezioni. Ad oggi questi sono: Hillary Clinton, Marco Rubio, Jeb Bush e Scott Walker. Una democratica e tre repubblicani. Cominciamo con quest’ultimi.
Al momento in cima ai sondaggi nel partito repubblicano c’è l’immobiliarista e personaggio televisivo Donald Trump. Esprime la rabbia contro l’establishment ma è pieno di contraddizioni che rendono difficile ipotizzare una sua candidatura dopo le primarie. La burocrazia del partito preferisce di gran lunga un personaggio come Jeb Bush, che se la dovrà vedere con il giovane Senatore della Florida Rubio e il governatore del Wisconsin Walker. Tra la schiera di candidati – oltre 15 – questi sembrano i più probabili ad arrivare fino in fondo.
Per quanto riguarda la politica estera americana non ci sono dubbi dell’orientamento di tutti quanti: fanno a gara per criticare l’accordo con l’Iran, a minacciare la Russia, e a bollare ogni tentativo di diplomazia come un segno della debolezza di un presidente che “non crede nella grandezza dell’America”.
Anche sul lato democratico c’è uno sfidante in buona posizione, il Senatore del Vermont Bernie Sanders. Incalza Hillary Clinton da sinistra sui temi economici e sta provocando un nuovo entusiasmo tra gli elettori. Tuttavia il futuro è nelle mani di Hillary. Ha la propensione di fare autogol, e quindi non si possono escludere passi falsi, ma per ora rimane ancora la favorita, se non altro perché viene considerata più eleggibile nella sfida contro i repubblicani.
Se dovesse inciampare allora oltre a Sanders potrebbero imporsi il Vicepresidente Biden, la Senatrice Elizabeth Warren o l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley (l’ultimo già candidato, gli altri due solo ipotetici). Ognuno di questi sarebbe meno falco di Hillary in politica estera. Infatti Hillary è nota per le posizioni aggressive adottate nelle varie battaglie interne all’Amministrazione Obama. Non a caso l’intervento in Libia viene spesso chiamato “Hillary’s war”.
Tirando le somme, troviamo che ad oggi gran parte dei contendenti seri per la Casa Bianca sono più falchi di Obama. E’ una costatazione amara per la parte significativa del paese che considera l’attuale presidente troppo guerriero, troppo accondiscendente verso i neocon, gli interventisti di sinistra, e il cosiddetto complesso militare-industriale. Potrebbe infatti essere che le possibilità migliori per una svolta verso la diplomazia sono quelle che vediamo oggi, e che dopo Obama si andrà di nuovo nell’altra direzione.
La personalità e gli istinti del nuovo presidente conteranno molto, e a lungo termine determineranno la direzione del paese. Tuttavia, come abbiamo visto anche con l’Amministrazione attuale, ci vuole tempo prima che le cose cambino. Il capo dell’esecutivo non determina da solo (o da sola) la direzione della politica estera. Le promesse elettorali possono essere mitigate e influenzate dall’establishment in base al clima e alle contingenze.
Ed è proprio qui la speranza, almeno per quelli che vogliono vedere uno spostamento duraturo della politica americana verso la strada della diplomazia. Se in effetti dopo Obama ci sarà un approccio più duro significa che quello che si riuscirà a fare e consolidare nel prossimo anno sarà fondamentale.
Per questo motivo per esempio c’è una battaglia forte intorno all’accordo con l’Iran e al futuro della Siria. Se questa Amministrazione spostasse il baricentro delle relazioni americane più lontano dagli interessi dell’Arabia Saudita e della destra israeliana, comincerebbe a cambiare il contesto. Ci sarebbe un’apertura ampia verso l’Iran, una maggiore collaborazione con la Russia, e di conseguenza la fine della politica di sostegno per i gruppi estremisti sunniti che alla fine dei conti ha alimentato il terrorismo anche contro l’Occidente. C’è chi nell’Amministrazione Obama pensa in questi termini, ma gli ostacoli ad una svolta duratura sono ancora molti.
A livello complessivo il rapporto più importante è quello con la Russia. Occorre lavorare per una soluzione diplomatica duratura alla questione ucraina, che potrebbe prevedere una forte autonomia per le regioni filo-russe e garanzie contro l’espansione della Nato fino ai confini russi.
Anche su questo fronte ci sono già sentori di un cambiamento, in modo particolare da quando John Kerry ha incontrato Sergei Lavrov a Sochi lo scorso maggio. Si parla di un accordo tacito dietro le quinte per favorire una soluzione in Siria, anche se da entrambe le parti non si è ancora rinunciato all’idea di influenzare la diplomazia attraverso interventi che spostano gli equilibri militari sul territorio.
Per concludere, l’ultimo anno della presidenza Obama sarà essenziale per le iniziative intese a spostare la politica americana dalla modalità degli interventi militari verso la diplomazia, per creare il contesto in cui il prossimo presidente – che potrebbe avere un atteggiamento più duro nella politica estera – dovrà operare.
* George Friedman, fondatore di Stratfor: “It really was the most blatant coup in history.”
Andrew Spannaus è giornalista e analista, fondatore di Transatlantico.info
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