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Perché l’Europa teme lo sboom della Cina

Negli ultimi 10 giorni, dopo numerose chiamate con clienti asiatici, ho iniziato il mio tradizionale road-show di settembre in Europa per incontrare gli investitori dell’area. Il sentiment sulla Cina, e più in generale sui Paesi emergenti, è pessimista. In particolare, vi è un vivace dibattito sul “vero” tasso di crescita dell’economia cinese.

Sulla base degli indicatori tradizionali legati alla produzione, come l’elettricità, alcuni ritengono che la Cina stia crescendo tra il 2% ed il 4%. A nostro avviso questo approccio non tiene conto del fatto che il settore dei servizi sta crescendo velocemente, guadagnando un peso sempre più preponderante all’intero del PIL del paese. Inoltre, il nostro indicatore proprietario sul PIL, basato su un più ampio set di dati, ci indica che la crescita del Celeste Impero si è attestata al 6% nel 1° trimestre e al 6% nel 2° trimestre. Questi valori sono inferiori rispetto ai dati ufficiali, ma in linea con lo scarto tipo che si registra.

Al di là dei dati, ciò che conta è che la classe dirigente fornisca indicazioni più coerenti sulla politica economica e attui una migliore politica di comunicazione. I segnali sono ancora incerti: da un lato si parla di un rafforzamento sul controllo dei capitali, dall’altro di una politica fiscale più proattiva. Sebbene il margine di manovra sia ridotto rispetto al 2009, le autorità cinesi possono ancora agire per vie fiscali. La politica economica è più importante rispetto al dibattito sulla validità dei dati cinesi.

Nonostante il sentiment negativo sui mercati emergenti, alcuni investitori si interrogano su una possibile inversione temporanea della correzione dei prezzi delle materie prime, delle valute emergenti e dell’inflazione stimata per i prossimi mesi. Si tratta, in realtà, dello scenario che è prevalso 6 mesi dopo il forte calo delle valute emergenti in occasione del “tapering” di metà 2013. Sebbene non possiamo escludere uno scenario di tal tipo, ci sembra prematuro allo stadio attuale, soprattutto senza una visione più chiara sulla politica della Fed. Manteniamo la nostra view su un rialzo dei tassi di interesse per la settimana prossima. Anche se l’impatto sui mercati sarà negativo, la decisione ridurrà l’incertezza e le conseguenze saranno migliori rispetto a ridurre i dubbi sull’economia statunitense, soprattutto se il dot plot che traduce le ipotesi sull’andamento dei tassi è rivisto al ribasso.

Sebbene il consensus converga sul fatto che il contagio dello stress presente sui mercati emergenti ai paesi emergenti dovrebbe essere limitato, gli investitori che abbiamo incontrato si sono mostrati molto interessati alla tempistica della prossima recessione USA. Come ho già evidenziato, ci aspettiamo una recessione nel secondo semestre del 2017: l’anno dopo le elezioni presidenziali americane di solito si caratterizza per la crescita più bassa dei 4 anni del mandato elettorale. Inoltre, nel 2017, saranno passati 9 trimestri dal probabile picco dei margini aziendali, timing di solito osservato prima di una recessione negli Stati Uniti. Ancora più importante, nonostante il nostro scenario relativo a bassi tassi di interesse, il costo di rifinanziamento del settore non finanziario americano tornerà al livello del 2007. Dato che l’ultima crisi finanziaria ed economica è stato risolta riducendo drasticamente il peso della spesa per interessi, questa situazione potrebbe essere fonte di timori in un’economia, come quella americana, che presenta un livello di indebitamento ancora elevato.

Per quanto riguarda l’Europa, gli investitori hanno apprezzato il confronto con il 1998: dopo la crisi del Sud Est asiatico, di gran lunga peggiore rispetto alle recenti correzioni avvenute sul mercato valutario, i consumatori europei hanno beneficiato di un incremento del potere di acquisto derivante dal calo del petrolio e dei prezzi delle importazioni. La nostra convinzione è che il consensus sottovaluti l’andamento dei consumi il prossimo anno, che dovrebbero, inoltre, beneficiare di politiche fiscali meno restrittive in Europa. Più in generale, vi è un ampio consenso sui titoli domestici con un leverage non elevato a breve termine, una view condivisa anche dal nostro team di stragegist.

Gli investitori si sono, invece, mostrati scettici sulla nostra call su un forte deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro il prossimo anno. Il nostro target di 0.95 entro la fine del 2016 è stato considerato troppo aggressivo. Non ci aspettiamo che l’EURUSD si deprezzi nell’anno in corso e potrebbe essere troppo presto anche per pensare che ciò avvenga nel 2016. Ma, come abbiamo espresso nel nostro ultimo report, tutti i cambiamenti delle politiche monetarie sembrano influenzare i mercati valutari e non i mercati obbligazionari a lungo termine. Alla luce di ciò, le oscillazioni dei mercati valutari di questo anno, che sono stati maggiori rispetto alle stime, dovrebbero continuare fino a quando le banche centrali continueranno ad aumentare la liquidità globale.


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