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Più debito e più disoccupati. Tanto rigore per nulla

Mentre inseguiamo, mese dopo mese, le statistiche e le rilevazioni che misurano gli effetti del Job Act, al fine di determinare sia il travaso di occupazione precaria ed a tempo determinato verso il nuovo contratto di lavoro senza termine predefinito, sia il maggior numero di nuovi occupati, è importante esaminare le tendenze di fondo del mercato del lavoro italiano nell’ultimo decennio, valutando in particolare l’occupazione e la disoccupazione nelle classi di età poste agli estremi, quelle più giovani e quelle più anziane.

Nonostante il decennio 2004-2014 sia stato caratterizzato da due fasi economiche nettamente diverse, la prima di crescita fino al 2008 e la seconda di duplice recessione e poi di stagnazione fino al 2014, l’andamento dell’occupazione è caratterizzato da una crescita continua, costante e progressiva della classe di età più anziana, quella compresa fra i 55 ed i 64 anni di età. Questa è passata dai 2,1 milioni del 2004  ai 2,4 milioni del 2008, per arrivare ai 3,5 del 2014: l’incremento è stato complessivamente di 1,4 milioni nel decennio, ma di ben 900 mila unità nei soli anni 2011-2014. La cosiddetta riforma Fornero ha avuto un impatto rilevante. Nel frattempo, l’occupazione complessiva è fluttuata, tornando esattamente al punto di partenza: è cresciuta dai 22,3 milioni del 2004 ai 23 milioni del 2008 (+ 700 mila unità), per ritornare ai 22,3 milioni del 2014 (-700 mila unità). Gli occupati della classe di età compresa tra i 15 ed i 34 anni (più ampia di quella ufficialmente considerata “giovanile”, che va dai 15 ai 24 anni), sono invece costantemente diminuiti: mentre erano 7,6 milioni nel 2007, si sono dapprima ridotti a 6,9 milioni nel 2008 (-700 mila unità), per arrivare a soli 5 milioni nel 2014 ( altri 1,9 milioni in meno). La partecipazione al lavoro delle classi di età più giovani è quindi caduta in un decennio di ben 2,6 milioni di unità.

Dopo la crisi, la forza lavoro italiana sta quindi ulteriormente invecchiando, progressivamente, anno dopo anno. La caduta della occupazione nella fascia di età compresa tra i 15 ed i 34 anni di età non è solo colpa della crisi economica e poi della stagnazione, ma è una conseguenza indiretta delle riforme previdenziali. Queste ultime hanno mirato all’allungamento della vita lavorativa, finalizzate alla sostenibilità finanziaria di un sistema previdenziale a ripartizione. Essendo state adottate in un contesto fortemente recessivo, senza alcuna misura volta contemporaneamente a sostenere la crescita economica, con l’obiettivo dichiarato di deprimere i consumi, hanno aggravato un fenomeno di fondo già di per sé negativo.

In sintesi, se tra il 2004 ed il 2014 l’occupazione nel suo complesso non è variata, nel frattempo sono aumentati di molto i lavoratori più anziani (+1,3 milioni) mentre sono diminuiti assai ancora quelli più giovani (-2,6 milioni).

Nel frattempo, è aumentata la disoccupazione: complessivamente +1,3 milioni nel decennio. Anche questa si è concentrata nella fascia di età compresa tra i 15 ed i 34 anni di età: +400 mila unità nel decennio 2004-2014, ma addirittura +700 mila unità nel solo periodo 2008-2014. Questo malessere provoca forti cambiamenti anche nelle tendenze politiche: i partiti tradizionali sono penalizzati, essendo considerati responsabili della situazione.

La stabilizzazione del sistema previdenziale è stata perseguita innalzando l’età per il trattamento pensionistico, riducendo le prestazioni: una logica meramente contabile, che non ha alcun nesso con le dinamiche sociali e della produzione. Una consistente riduzione degli ingressi delle giovani generazioni nel mercato del lavoro incide sulla crescita economica, che si fa sempre più stentata: calano i consumi strutturali e nelle aziende mancano vitalità nuove.

C’è un altro dato di cui occorre tener conto, rilevante più del tasso di disoccupazione: l’offerta di lavoro tende a contrarsi dovunque, anche negli Usa. Se la Fed sta continuamente rinviando l’aumento dei tassi ufficiali di sconto nonostante il tasso di disoccupazione sia scesa al 5,2%, è anche per via della continua contrazione della forza lavoro. La somma degli occupati e di coloro che cercano attivamente occupazione sta calando senza sosta, sin dal 2001. Ad agosto scorso è tornata ai livelli del 1978, con il 62,6% della popolazione. Ancora a gennaio, era al 62,9%. Nel 2008 era di quasi quattro punti più alta, con il 66,2%. Nel 2001, alla vigilia della crisi del dot.com, era pari al 67,3%. Sembra quindi che il successo delle politiche monetarie espansive, finalizzate alla riduzione della disoccupazione, sia frutto anche di una illusione statistica. Mentre si misura solo la quota della ricerca di lavoro non soddisfatta dal mercato, si cela la progressiva estensione della popolazione inattiva: mentre non sono state effettuate riforme volte ad innalzare perentoriamente l’età della pensione, sono stati incrementati i programmi di assistenza sociale.

C’è comunque una piena convergenza tra l’esperienza americana e quella italiana nello scorso decennio: in un contesto di tendenziale contrazione dell’offerta di lavoro, la riduzione della disoccupazione dipende solo dalla crescita economica.

Non c’è dubbio che le iniziative del governo volte a ridurre la precarizzazione del lavoro ed a ridurre il costo del lavoro mediante sgravi contributivi vanno nella direzione giusta. Ma senza uno stimolo alla crescita derivante dagli investimenti, pubblici e privati, è difficile che la disoccupazione giovanile possa ridursi in modo consistente, contribuendo al consolidamento degli equilibri previdenziali. In un sistema a ripartizione, dipendono dall’ingresso di sempre nuove forze nel mercato del lavoro.

Per tornare competitivi sui mercati internazionali, si è deciso che i livelli salariali dei lavoratori italiani dovevano scendere: la disoccupazione di massa rappresenta lo strumento principale per costringerli ad accettare paghe ridotte. La politica dei sacrifici senza crescita ci ha portato ad un vicolo cieco, facendo lievitare a dismisura, e senza alcun beneficio, il rapporto debito/pil per via del crollo del prodotto. Anche la disoccupazione è stata fatta aumentare inutilmente, visto che ora sta venendo meno anche il traino sperato della domanda internazionale. Più debito pubblico e più disoccupati: tanto rigore, davvero per nulla.

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