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La caduta del Sindaco di Roma è il fallimento del consociativismo togliattiano

Più di Suburra il film di Stefano Sollina che porta sullo schermo l’oscena vicenda di Roma Mafia Capitale, può la lungimirante considerazione davvero attuale dell’eretico comunista obnubilato, Antonio Gramsci mi sono convinto che anche quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio.

Perchè da qualunque parte la si voglia analizzare, la si giri e rigiri, la fragorosissima caduta del dell’ormai ex-sindaco di Roma e della sua giunta rifatta e rimodellata ad ogni schiamazzo delle oche del Campidoglio, è il fallimento culturale e politico e culturale del consociativismo su cui i nipotini di Palmiro Togliatti hanno costruito con i nipotini di Alcide De Gasperi l’amalgama mal riuscito del Partito democratico che ri-propone la vocazione a essere il Partito della Nazione.

Non sono il consociativismo e la vocazione a Partito della Nazione una prassi e un progetto del tutto nuovi: sono l’eredità togliattiana, e non  gramsciana, di un modello di società imperniato sull’intesa o accordo di potenza tra i due grandi partiti di massa, Pci e Dc, sopravvissuti entrambi allo tsumani dell’89, il crollo del Muro di Berlino, e del ’92, Tangentopoli.

La fusione a freddo tra ex-comunisti e ex-democristiani con l’appendice di una rappresentanza socialista tanto sparuta quanto servizievole, ha dato vita alla peggiore cultura politica e con essa di conseguenza al peggiore partito del dopoguerra che non ha trovato di meglio che assorbire e far propria l’ideologia neoliberista e cancellare d’emblée la laicità cara a Gramsci e la bobbiana distinzione tra destra e sinistra.

Il passaggio dal consociativismo al malaffare, alla ripartizione del potere e sue provvigioni, delle carriere e sue prebende, è stato l’epilogo naturale e messo nel conto: Roma Mafia Capitale non è venuta dal nulla, ma è stata il frutto dell’accordo di potenza tra le due componenti eredi del consociativismo togliattiano che è andato oltre i suoi stessi confini.

Si pone all’ordine del giorno, in tutta la sua drammaticità per le sorti della già traballante ed incerta democrazia, la questione romana che richiede un’altra breccia di Porta Pia che, come nel 1870, liberi Roma dall’invadenza asfissiante del Vaticano, per riconquistare la sua laicità e, con essa, la sua indipendenza.

Il sindaco di Roma non poteva non sapere di che pasta e di quali personaggi fosse fatto il suo partito lontanissimo anni luce dall’autore dei Quaderni dal carcere: tra squilli di tromba e rulli di tamburi più di un capobastone lo ha imposto alle primarie vinte e poi il Pd lo ha candidato a primo cittadino: è stato eletto, vale la pena rimarcarlo, con 660 mila voti su 2,3 milioni di aventi diritto.

Perchè è caduto? Perchè non sapeva o perchè invece sapeva? Di certo non è come si vorrebbe far bere ai romani de’ Roma per colpa dei poteri forti con cui dialogova e che ha voluto anche raggiungere negli Usa, dove però è rimasto mentre nelle vie della Capitale sfilava il beffardo e mastodontico corteo funebre del Padrino, Vittorio Casanova.

Roma ha bisogno urgente di una forte scossa, di un’altra breccia di Porta Pia, se vuol venir fuori dalla melma del malaffare e della corruzione fatte sistema dalla prassi consociativa: servono un po’ di eresia e di coraggio perchè come invoca il popolare stornello di Gigi Proietti annamo, daje Roma, abbasta uno scossone!

 


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