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Che cosa non funziona nella cultura della finanza

“Re Lear” è forse una delle migliori tragedie di Shakespeare nel descrivere la complessa natura dell’uomo che appare nella sua pazzia-saggezza, la tempesta che sconvolge la storia è la metafora della condizione umana. Nel quarto atto, alla scena prima, il conte di Gloucester esclama: “E’ la piaga dei tempi quando gli idioti governano i ciechi“. Si svolge così un gioco paradossale tra ragione e pazzia e si dimostra quanto l’universo morale sia più complicato ed intimamente contradditorio di quanto la nostra vita di ogni giorno possa indurci a credere.

L’affermazione drammatica è sempre attuale, perché l’animo umano sembra sordo e cieco nel capire la storia, le cause vere dei suoi drammi e gli errori nel cercare le cure che peggiorano i mali. Ne siamo tutti responsabili o perché non vogliamo vedere o perché non abbiamo la cultura ed il pensiero per capire la verità sempre sistematicamente manipolata dai media.
Al centro del dramma sociale che sta devastando il nostro tempo è la mancanza di opportunità di lavoro per i giovani, ma in generale per tutti, che vedono progressivamente perdere quanto la speranza di un futuro migliore aveva fatto credere.

Le cure proposte sono solo pannicelli caldi che dimostrano la cecità e l’incapacità di leggere la storia; cure che non servono a curare il dramma le cui radici dipendono dal modello socioculturale che ha affermato come fine personale la massimizzazione del reddito anche normalizzando comportamenti illeciti e facendo della finanza uno strumento per realizzare il fine. E’ del tutto naturale che questo modello culturale veda il lavoro solo come costo e come fattore produttivo da ridurre al minimo e da spremere fino a quando è da scartare. E’ una cultura che si pone in modo assolutamente asimmetrico rispetto alla possibilità di creare lavoro perché il suo fine è quello di abbattere il suo costo a qualsiasi condizione tanto rispetto al fine tutto il dramma che ne segue è solo un “danno collaterale“. Siamo qui sempre a ragionare sui mezzi – Jobs act, art. 18, eccetera – che stanno evidenziando la loro inadeguatezza ad affrontare alla radice il problema. Ma se non mettiamo in discussione i fini, la progressiva mancanza di lavoro e la conseguente concentrazione di ricchezza finiranno per far saltare qualsiasi parvenza di democrazia e porteranno inevitabilmente al caos globale che già cominciamo a vedere.

E’ sempre un dialogo tra sordi e ciechi in cui ogni parte ha le sue responsabilità: il governo privo di idee e prigioniero di forze che non può controllare, il mondo industriale incapace di avere idee innovative e creative, pur avendo come maestra la storia millenaria di un Paese che ha fatto del lavoro la sua fonte di benessere, le associazioni sindacali che in modo autistico continuano a reiterare in modo compulsivo sempre gli stessi atteggiamenti di sfida, anziché provare a ricostruire un sistema collaborativo. In questo modo non se ne uscirà mai.

La sfida ai diritti universali dell’uomo, scritti solo 60 anni fa, sembra avere partita vinta perché la legge del più forte è diventata dominante. Il liberismo assunto come fine ha cavalcato la finanza, per realizzare più rapidamente il profitto personale. Così la delocalizzazione è diventata la via più breve per abbattere il costo di produzione, favorire una globalizzazione della finanza che porta il surplus nei Paesi blacklist privando gli Stati della ricchezza per sostenere il welfare e le iniziative imprenditoriali innovative per i giovani. Si è separato il capitale dal lavoro e si è reso quest’ultimo ostaggio del primo, si sono ridotte le imposte ed i contributi delle multinazionali a sostegno dello stato sociale, che si vede privato delle risorse per ridurre le disuguaglianze.

Nel nostro Paese, una politica basata sul principio di utilità ha potuto andare sistematicamente contro i principi costituzionali, favorendo gli intrecci tra affari e politica. Le conseguenze sono l’esplosione del debito pubblico nella spesa corrente funzionale a comperare il consenso; sono venuti meno il senso di responsabilità sociale e la funzionalità dei sistemi di controllo che a maglie larghe fanno passare tutto.

Senza lavoro l’uomo perde la sua dignità e diventa un puro oggetto di scambio da misurare con algoritmi, ma perde di vista la sua dimensione di persona. Ormai si è arrivati, giustamente, a chiedere l’abolizione del premio Nobel in economia perché contrario alla volontà di Alfred Nobel che vedeva nei premi indicati (l’economia è stata aggiunta dalla Banca di Svezia) la via da seguire per dare dignità alla società . Quella cultura premiata ha legittimato il modello di cui siamo prigionieri, è contro gli ideali di Alfred Nobel, grazie alla legittimazione di una finanza che non ha fondamento scientifico, ma che è funzionale all’esercizio di un potere egemone sovranazionale.

La sfida del lavoro si fa mettendo in discussione il modello culturale che lo vede solo come fattore produttivo da ridurre e non una via fondamentale per costruire una società in cui l’uomo possa aspirare ad un benessere morale e spirituale, che non è fatto solo di beni consumabili e voluttuari, ma da sentimenti e legami familistici. Di questo passo, purtroppo, dovremo ricordare il pensiero che Shakespeare fa dire al conte di Gloucester: “ E’ la piaga dei tempi quando gli idioti governano i ciechi“.


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