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Perché si deve dire no allo status di economia di mercato per la Cina

Il susseguirsi di incontri e convegni in Europa aventi per tema i rischi del riconoscimento alla Cina dello Status di Economia di Mercato denota come tale problema rappresenti una vera e propria “bomba a orologeria”. Eppure nella coscienza dei cittadini europei, addormentata dal silenzio dei media in proposito, tali rischi non sembrano essere presi in adeguata considerazione. L’opinione pubblica pare più orientata verso preoccupazioni di stampo ambientalista, ignara del fatto che l’UE dispone dei più rigidi controlli in fatto di emissioni di CO2 ed è di fatto l’organismo internazionale che, grazie a norme severe ed attente, dimostra la maggior sensibilità e attenzione in materia di inquinamento.

Se sottolineo questo punto è soprattutto per indicare quanto tali, pur giuste, attenzioni abbiano, negli ultimi anni, gravato sull’economia delle industrie europee e italiane, costrette a continui adeguamenti dei propri impianti produttivi nel rispetto di norme antinquinamento con grande dispendio economico (senza contare la mole di lavoro burocratico che tali procedure richiedono).

Il panorama industriale europeo, già duramente provato dalla crisi economica in atto in questi anni, rischia ora di trovarsi di fronte a una situazione che minaccia di metterlo definitivamente in ginocchio.

Da diversi anni la Repubblica Popolare Cinese sta infatti esercitando pressioni sulla Commissione Europea affinché le venga riconosciuto lo Status di Economia di Mercato. Questo perché l’Unione Europea rappresenta uno dei tre principali attori della Comunità Internazionale, insieme a USA e, appunto Cina, nell’ambito della regolamentazione dei rapporti di politica commerciale all’interno della WTO (o OMC) – World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio).

Dal 2001 infatti, la Cina è membro del WTO e l’organizzazione ha stabilito un periodo di 15 anni perché la Repubblica Popolare Cinese, oggi riconosciuta come “economia in transizione”, attui nel mercato interno una serie di riforme di apertura della propria economia al modello della libera concorrenza.

Il problema è che se questo riconoscimento venisse concesso senza l’effettiva attuazione di tali riforme le conseguenze per la già fragile economia europea e italiana sarebbero gravissime perché si annullerebbe di fatto la competitività delle nostre industrie manifatturiere.

A dare l’allarme sono le stesse imprese e associazioni industriali europee, fra le quali Aegis Europe, che ha pubblicato uno studio realizzato dall’istituto di ricerca americano non profit EPI (Economic Policy Institute) sui probabili effetti che il riconoscimento alla Cina del MES (Market Economy Status). Dal documento balzano all’occhio soprattutto due dati più che preoccupanti: la possibile perdita di 3,8 milioni di posti di lavoro e un decremento del 2% del Prodotto Interno Lordo dell’Unione Europea.

Alle origini delle condizioni che annichilirebbero la competitività delle aziende manifatturiere europee, all’indomani di un riconoscimento al gigante asiatico del MES, sta una costante e duratura concorrenza sleale operata dalle aziende cinesi nei confronti dei propri competitor internazionali.

Nei Paesi designati come “Economie di Mercato” infatti sono le imprese individuali a sostenere i costi di investimento e di produzione, mentre per quanto riguarda le economie di transizione, come quella cinese, si presume che costi e prezzi siano influenzati dall’interferenza dello Stato. In altre parole, un fenomeno come quello del dumping su diversi prodotti manifatturieri cinesi esportati in Europa è la classica conseguenza di un’economia sorretta grazie all’appoggio dello Stato e quindi per definizione “non di mercato”.
Con l’Art. 2.7, c del Regolamento del Consiglio n. 1225/2009, in accordo con il Protocollo di Accesso della Cina alla World Trade Organization, (paragrafo 15 d, l’Unione Europea ha sancito cinque criteri per misurare il rispetto dei parametri di economia di mercato. Si tratta di misure analoghe a quelle sancite dagli Stati Uniti, altro partner commerciale della Cina che non ha ancora riconosciuto a questa il MES.

Questi i criteri UE:
1. Grado stabilito di influenza governativa sull’allocazione delle risorse e le decisioni delle imprese;
2. Assenza di interventi dello Stato nelle operazioni di privatizzazione delle imprese e nell’impiego di meccanismi di compensazione e di scambio che non rispettino le regole del libero mercato;
3. Esistenza di un diritto societario trasparente e non discriminatorio in grado di garantire un’adeguata governance societaria;
4. Trasparenza dello Stato di diritto volta a garantire il diritto di proprietà e il funzionamento di un regime fallimentare;
5. Esistenza di un settore finanziario che operi indipendentemente dallo Stato.

Ad oggi la Directorate General for Trade della Commissione Europea ha riscontrato il rispetto, da parte della Cina, del solo secondo parametro. Per quanto concerne gli altri quattro non risulta che la Repubblica Popolare Cinese abbia intrapreso significative riforme.

Alla luce di questa situazione i miei colleghi del PPE ed io stiamo da tempo formulando interrogazioni alla Commissione Europea per esprimere le nostre fondate preoccupazioni in merito al potenziale devastante impatto che il riconoscimento del MES alla Cina recherebbe al nostro settore manifatturiero.

È però altrettanto importante che tali rischi siano ben chiari anche in sede pubblica, affinché si diffonda la coscienza dell’enorme valore che le nostre industrie, troppo spesso prese di mira da facili demagogie, rappresentano per tutti noi.

Uno dei principali compiti che ho assunto con il mio mandato di europarlamentare è proprio quello di dar voce, rappresentare e difendere con il mio lavoro l’opera e la grande tradizione dell’industria italiana. E ritengo che dare il giusto rilievo all’importanza e al valore culturale dell’imprenditorialità rappresenti una parte importante del mio impegno.

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