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Vi spiego le mire geopolitiche e monetarie della Cina

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Ogni lunga marcia inizia con un primo passo. Anche stavolta, per la Cina si tratta di una rivoluzione: con un modello prestampato di appena una pagina, intitolato Chinese Inter-Bank FX Market Registration Form”, destinato all’adesione di Banche centrali, istituzioni finanziarie internazionali e Fondi Sovrani, il 30 settembre scorso la Banca del Popolo cinese ha avviato ufficialmente l’operazione di smarcamento dal dollaro.

CHE COSA CAMBIA IN CINA

Le operazioni di cambio saranno gestite attraverso una apposita, autonoma piattaforma informatica e di telecomunicazioni, denominata China Foreign Exchange Trading System (CFETS). Superfluo sottolineare la consueta prudenza delle autorità cinesi e soprattutto la profonda diffidenza nei confronti dei mercati anonimi, delle dark pool, e della speculazione: le operazioni di cambio, che avverranno nelle consuete forme di transazioni spot, e di operazioni forward, swap ed option, verranno gestite sotto la vigilanza della Banca centrale cinese. E’ un controllo specifico: una volta che gli yuan gireranno liberi per il mondo sarà ben difficile che il mercato si astenga dall’operare sui cambi della valuta cinese.

LA RINUNCIA DI PECHINO

Verrà meno l’eccezionalità dello yuan, finora non convertibile sul mercato dei capitali: la Cina rinuncia definitivamente all’ancoraggio diretto col dollaro, che in passato le aveva consentito una straordinaria protezione del cambio, fino al punto di essere stata accusata di manipolarlo in quanto il consistente e progressivo reimpiego dell’avanzo commerciale sull’estero in titoli di Stato americani ne avrebbe evitato la rivalutazione.

 

I NUMERI E GLI IMPATTI

Basta poco per comprendere come questo vantaggio si fosse trasformato nel tempo in un handicap: nel 2014 la Cina aveva asset all’estero per 6.409 miliardi di dollari e passività verso l’estero per 4.632 miliardi, pagando oltre 30 miliardi netti l’anno per rendite e dividendi. Non solo per via della generale denominazione del commercio internazionale in valuta straniera, ma soprattutto per averne così vestiti tutti i crediti, e soprattutto i debiti, Pechino è esposta a rischi sistemici: sul piano dei cambi e dei tassi di interesse, dopo le ripetute altalene di dollaro, yen ed euro, non può rimanere al rimorchio delle altrui politiche monetarie e valutarie Per questo, non può più rimanere una economia valutariamente eterodiretta.

GLI EFFETTI SUL DOLLARO

Di converso, anche la eccezionalità del dollaro ne sarà intaccata. Basta pensare che la posizione internazionale netta degli Usa nel 2014 è  negativa per 6.801 miliardi di dollari, mentre quella cinese è attiva per 1.403 miliardi e che l’attivo della bilancia dei pagamenti correnti cinesi è positiva per 220 miliardi di dollari, mentre quella statunitense segna -389 miliardi. Il finanziamento del debito pubblico americano non sarà più automaticamente assicurato dal reimpiego dell’avanzo commerciale cinese, come è avvenuto fino al 2013. Da allora, infatti, la Cina ha prima stabilizzato e poi ridotto la sua detenzione di Treasury bond, di cui comunque rimane il secondo proprietario al mondo dopo la Federal Reserve che ha in portafoglio circa 2.450 miliardi di titoli del Tesoro federale: a luglio scorso, la quota cinese si era ridotta a 1.241 miliardi di dollari rispetto al picco di 1.317 miliardi raggiunto a novembre del 2013.

LA MAPPA MONETARIA

Il fenomeno è generalizzato: anche il Giappone ha ridotto le sottoscrizioni, portandole a 1.197 miliardi rispetto ai 1.222 di ottobre 2014. Il Belgio, che opera per conto terzi, ha dimezzato gli investimenti, passando da 352 a 155 miliardi di dollari. La Russia è arrivata a detenere 82 miliardi di dollari, con una riduzione di 32 miliardi. La Norvegia ha contratto da 85 a 66,5 miliardi i titoli in portafoglio. Le motivazioni di questa generalizzata riduzione nella detenzione di US Treasury bond sono profondamente eterogenee: se la Russia ha sicuramente disinvestito per fronteggiare il deflusso di capitali determinato dalla crisi ucraina e dalle sanzioni occidentali, la Norvegia ed il Giappone stanno probabilmente cercando di evitare le perdite sui titoli in portafoglio derivanti dai futuri aumenti dei tassi americani. Un futuro rialzo dei tassi americani indurrà altri capitali stranieri a sottoscrivere i Treasury bond, ma il rafforzamento del dollaro peggiorerà nuovamente i conti con l’estero degli Usa, non solo quelli commerciali ma la posizione finanziaria netta. Con la concorrenza dello yuan come moneta di riserva internazionale, il finanziamento del tesoro americano, in ogni caso, perderà una insostituibile posizione di rendita.

EFFETTO FUGA DEI CAPITALI

C’è un secondo fenomeno da considerare: la fuga di capitali dalle economie emergenti, e dalla stessa Cina, cui si assiste ormai da mesi e che ha provocato tensioni e pesanti flessioni sui cambi. Il Fmi ha valutato in mille miliardi di dollari questo andamento, che è dovuto al peggioramento della situazione economica di molte economie emergenti, ma anche a ragioni speculative e precauzionali. Per quanto riguarda la Cina, è stato determinato dalla convergenza di quattro ordini di fattori. Invertendo l’ordine con cui sono stati esposti a Lima dal rappresentante al Fmi YI Gang nel corso del recente meeting del Fmi, i movimenti in uscita sono stati causati: dall’incremento degli investimenti cinesi all’estero; dalla volontà degli operatori di proteggersi dal rischio di cambio; dall’esigenza di ridurre il leverage e l’esposizione debitoria verso l’estero e degli aggiustamenti derivanti dal modificarsi del cambio dello yuan. La riduzione della detenzione cinese di US Treasury bond è quindi la  contropartita della strategia di muoversi liberamente con investimenti all’estero, e forse anche con prestiti, magari nei confronti dei Paesi emergenti di cui è il maggior importatore.

CORSI E RICORSI STORICI

Lo yuan dimostra di essere pronto a svincolarsi dalla supremazia globale del dollaro, così come quest’ultimo sfidò la sterlina negli anni Venti del secolo scorso, riuscendo infine a detronizzarla. Oggi la moneta di Pechino si colloca solo al settimo posto delle riserve valutarie ufficiali, con poco più dell’1%, mentre il biglietto verde campeggia al 40%: sono rapporti che non riflettono né il potenziale economico, né il ruolo commerciale di Cina e Stati Uniti d’America. La Cina ha necessità di dotarsi di una propria infrastruttura finanziaria globale, adeguata alla dimensione ormai colossale della sua economia e del suo ruolo nell’economia globale. Per riequilibrare i rapporti con il mondo deve comunque esportare capitali, a lungo ed a breve, che compensino l’avanzo delle partite correnti. E non può più farlo usando solo monete straniere.

IL RUOLO DELLA FED

Non va dimenticato, poi, che la crisi americana del ’29, immediatamente dilagata con conseguenze nefaste per il mondo intero, derivò dalla inadeguatezza degli Usa rispetto all’enorme potenziale economico e finanziario conquistato nel ventennio precedente e dalla incapacità di valutare a pieno l’impatto che le decisioni riguardanti il dollaro avevano sui movimenti internazionali. Per servire la congiuntura, ma soprattutto per spiazzare definitivamente il mercato londinese delle accettazioni a favore di Wall Street, nel ’27 la Fed abbassò i tassi ed allargò i cordoni del credito, attivando un afflusso turbinoso di capitali su Wall Street, che poi fu incapace di frenare. Le recenti vicende cinesi, che hanno interessato prima i prezzi degli immobili e poi i corsi azionari, dimostrano l’insufficienza del suo solo mercato interno ai fini di un reimpiego stabile dei surplus commerciale: occorre poter investire yuan direttamente all’estero, senza più la duplicazione tra moneta interna ed estera.

LA STRATEGIA GEOPOLITICA DELLA CINA

L’obiettivo di far acquisire allo yuan dello statuto di moneta convertibile sul mercato dei capitali sembra essere parte di una strategia geopolitica più ampia di competizione con gli Usa, in cui la Cina fa da sponda, sul piano economico e fnanziario globale, al ruolo crescente che la Russia sta cercando di riacquisire dal punto di vista politico e militare. La creazione di una Banca internazionale di investimenti alternativa alla Banca mondiale, così come la progettata istituzione di un Fondo monetario ad hoc tra i Paesi Brics, rappresentano i segni dell’insofferenza cinese rispetto alla sua sottorappresentazione all’interno del Fmi e degli ostacoli frapposti alla ammissione dello yuan tra le valute ufficiali di riserva accanto a dollaro, euro, sterlina e yen.

CHE FA LA RUSSIA

Cina e Russia reagiscono, all’unisono, al “circondamento” che avverrebbe con la creazione attraverso il TPP, di un’area transpacifica che esclude la Cina, e con il TTIP di un’area transatlantica che esclude la Russia. Gli Usa manterrebbero, per via di accordi commerciali, quella duplice eccezionalità del dollaro e politico-militare, che ora viene messa in discussione.

LE CONCLUSIONI

C’è da rilevare, però, come la eccezionalità del dollaro sia ormai tracimata in un sovraccarico di responsabilità nei confronti dell’economia globale, che ormai nuoce alla stessa economia americana. Da oltre un trentennio, dall’epoca della Greenspan put, la Fed è divenuta il prestatore di ultima istanza del mondo intero, per cui ogni immissione di nuova liquidità a seguito di una crisi, anche se settoriale o regionale, dilaga per il pianeta, provocando quello che il Ministro dell’economia del Brasile Guido Mantega, riferendosi a Qe2, definì uno “tsunami monetario”. Di converso, ogni movimento di restrizione monetaria prospettato della Fed, dal tapering annunciato da Ben Bernanke al lift-off dei tassi prospettato ormai da troppo tempo da Janet Yellen, provoca movimenti di capitale che, anticipando la rivalutazione del dollaro, destabilizzano molte economie.

In futuro, in giro per il mondo, ci saranno sempre meno dollari e sempre più yuan: ma se gli Usa non potranno più comprare dalla Cina stampando dollari, a chi venderà la Cina? Gli Usa continueranno a comprare, ma per farlo si dovranno indebitare in yuan: è questa la vera rivoluzione.



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