Caro direttore,
ho letto con interesse l’articolo di Formiche.net “Che succede tra Casse previdenziali e governo” a firma Fernando Pineda.
Tra gli addetti ai lavori circola in effetti una bozza di decreto del governo che penso sia comunque oggetto di modifiche in questi giorni e in queste ore, a quanto mi consta.
È comunque opportuno, se ha spazio sulla testata che dirige, approfondire alcuni aspetti che l’articolo non evidenziava.
Il decreto in questione del Mef sugli investimenti delle Casse (fondi pensione di primo pilastro come nei paesi anglosassoni) si ispira liberamente a quello sui fondi pensione (che sono integrativi di secondo pilastro) a sua volta regolato da normativa europea.
Quindi, secondo la mia opinione, in maniera discrezionale il Mef ha deciso di assumere come base una normativa europea destinata ad altra categoria di soggetto previdenziale. Naturalmente, in assenza di una disciplina europea l’ispirazione è e resta solo tale nel senso che poi il ministero dell’Economia e delle Finanze e quello del Lavoro, sentita Covip, hanno potuto liberamente apportare tutte le modifiche che hanno voluto.
Qui è partita la seconda questione: la visione delle strutture tecnocratiche – a dire il vero in materia molto poco “tecno” e molto più “buro-cratiche”, dice un mio collega di azienda – ha prevalso dando luogo ad un provvedimento che non “si parla” – si dice in gergo – né con la riforma Fornero, né con il decreto sulla fiscalità dello stesso MEF, né ancora con i fondamenti tecnici della materia e, cosa peggiore di tutte, né con la realtà effettuale della realtà riguardante mercati ed investimenti.
Il provvedimento in gestazione considera le casse di previdenza tutte uguali, senza alcuna capacità di discernimento e distinzione in base alla dimensione e alla struttura organizzativa. I limiti imposti sono uguali per tutti.
Altro aspetto da sottolineare: i limiti imposti spingono le Casse di previdenza a fare ciò che i fondi pensione italiani hanno sempre fatto e che si dice da almeno 7 anni non devono più fare, nell’interesse degli iscritti e per rispettare quanto richiesto dalla Legge Fornero: ovvero spinge l’investimento per almeno il 65% del patrimonio di ciascuna cassa verso debito pubblico e investimenti cartolari, che alimentano la panna montata della volatilità dei mercati.
Per l’economia reale resta il 35% del patrimonio di ciascuna cassa ma con l’immobiliare che può arrivare fino al 30% e la parte rimanente (infrastrutture, private equity, ecc.) che non può superare il 10%. In pratica siamo alle solite: immobili, debito pubblico e volatilità cartolare.
Un altro aspetto critico è che non c’è alcuna consapevolezza e distinzione tra società industriali – quotate e non – e società di investimento, che insieme ai fondi sono una delle modalità di investimento diversificato nell’economia reale.
Ma, cosa più grave, c’è un limite assoluto pari ad appena il 10% del capitale di una società non quotata (anche se società di investimento) o del patrimonio di un fondo di investimento che ciascuna cassa può detenere.
Secondo alcune prime bozze che ho letto che tale limite era del 25% e si capisce bene: puoi fare un fondo con 4 casse non con 10 casse.
Peraltro, in questo modo si vieta alle casse di fare quello che molti investitori di ogni tipo fanno: svolgere il ruolo di cornerstone investor di un’iniziativa che viene particolarmente apprezzata.
Grazie dell’attenzione e distinti saluti
Arcangelo Botti