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Demografia, Primavere arabe, sostenibilità e sicurezza. Ne parliamo con il Professor Alfonso Giordano

 

L’andamento demografico italiano è una imprescindibile chiave di lettura per le decisioni di spesa nei settori strategici. La demografia può aiutare anche nel prevedere instabilità nel lungo periodo se correlata ad altri indicatori economici. Infine, cosa ci aspetta dai cambiamenti nel mercato energetico in previsione di modelli sostenibili?

Alfonso Giordano è docente presso la LUISS Guido Carli e l’Università degli Studi di Salerno. Insegna Sviluppo sostenibile e flussi migratori, Geografia Politica (insieme al Prof. Jared Diamond) ed è Responsabile per le relazioni internazionali della Società Geografica Italiana.

Professore, se da una parte gli italiani non fanno più figli come prima, sono gli immigrati a mantenere ancora in attivo il tasso di natalità. Come cambierà la piramide demografica italiana nei prossimi decenni? È in atto un cambiamento radicale della popolazione, o è solo propaganda di chi è a favore dei respingimenti dei migranti?

Negli ultimi anni il trend della popolazione italiana si è mosso soprattutto per effetto dei figli degli immigrati, gli unici ad avere un tasso di fecondità superiore al 2,1%. Anche se siamo cresciuti di qualche milione, quello che si prevede nei prossimi anni è una stabilizzazione della popolazione accompagnata, forse, da un suo decremento. Ciò sostanzialmente per due ragioni: da un lato il bassissimo tasso di fecondità delle italiane (1,38 per donna, tra i più bassi al mondo), dall’altro il fatto che lo stock dei migranti stabilmente residente in Italia non è più sufficiente a garantire quel minimo di sostenibilità del tasso di fecondità. Infatti, gli immigrati già presenti da qualche anno in Italia si sono “adattati” ai nostri trends socio-culturali, ossia fanno sempre meno figli. Lo stock di immigrati presenti (oltre 5, 5 milioni) ha, insomma, già dato il suo apporto. Di sicuro c’è che la popolazione italiana è destinata a invecchiare per la minore presenza di giovani.

Un oculato piano per investimenti strategici di uno Stato non può prescindere dalle caratteristiche demografiche della popolazione. Considerando che in Italia il tasso di natalità è sempre aggiornato al ribasso, come bisognerebbe programmare tali investimenti nel medio-lungo periodo? Esiste il rischio che le ideologie politiche non prendano in considerazione gli attuali trends demografici nelle scelte di spesa?

Il rischio è forte e spero di essere smentito. Ciò che sappiamo è che negli ultimi 30-40 anni è stata messa in atto una politica scellerata, che non ha tenuto affatto conto dell’andamento demografico, fondamentale nella scelta degli investimenti strategici, cioè scuola, ricerca, tecnologia ma anche in previsione di spesa con riguardo, per esempio, alla previdenza e all’assistenza. Il caso del sistema pensionistico è esemplare: sono state decise e sono state implementate politiche come se la nostra demografia fosse basata su ritmi iraniani (la metà della popolazione dell’Iran ha meno di 30 anni), ossia su una grande e continua presenza di giovani e adulti in età lavorativa in grado di contribuire al mantenimento del sistema. Invece, come tragicamente sperimentato, ciò che è accaduto è stato decisamente il contrario: i giovani sono fortemente diminuiti in percentuale sul totale della popolazione. Il problema è che alcune scelte strategiche spesso possono rivelarsi impopolari nel breve periodo da parte di chi persegue il proprio progetto politico senza tenere conto delle conseguenze nel lungo periodo. Dunque, tali decisioni non pagano politicamente e si rivelano difficili da attuare.

Quanto incidono queste decisioni sulle voci di spesa nel settore della sicurezza?

Oggi in Italia ci sono (dati Istati) circa 157 ultrasessantacinquenni ogni 100 giovani (fino a 14 anni) e, inoltre, circa 55 persone a carico per ogni 100 che lavorano, vale a dire due lavoratori per ogni pensionato. Questo significa che se in un paese con maggioranza di giovani e adulti è possibile rilevare più investimenti in questioni legate alla sicurezza o spese nel settore militare, è ragionevole pensare che in un paese sostanzialmente anziano, come l’Italia, la maggior parte degli investimenti è sbilanciata sul lato previdenziale e assistenziale (anche nel comparto militare).

Spostando l’attenzione sui Paesi arabi protagonisti della cosiddetta “Primavera”, è possibile fornire una risposta alle cause di queste rivoluzioni attraverso la demografia? In questi termini, è possibile prevedere nel lungo periodo, attraverso studi sulla correlazione fra trends demografici e indici di sviluppo, scenari critici o instabili per la sicurezza?

Molteplici sono stati i tentativi di spiegazione delle cosiddette Primavere Arabe. Sicuramente la composizione demografica di quei paesi ci può consegnare qualche interpretazione. La differenza tra le due sponde del Mediterraneo è evidentemente sostanziale sia dal punto demografico sia da quello geoeconomico. Il tasso di fecondità per donna nei paesi arabi è di circa 3 figli mentre in quelli europei è fermo a poco più di uno. Una classe giovanile praticamente tripla può essere sicuramente un vantaggio, ma può rappresentare anche una fonte di instabilità se si ritrova ad essere senza adeguati sbocchi lavorativi. Un’altra differenza è dovuta al fatto che i giovani europei, pur riscontrando difficoltà di entrata nel mercato del lavoro (anche se per ragioni totalmente diverse da quelle dei paesi arabi) sono però “tutelati” dalle classi demografiche più anziane, e cioè dai loro genitori e sempre più spesso anche dai loro nonni, oltre che naturalmente da un sistema più democratico, stabile e ricco che però sta dimostrando ormai da tempo il peso negativo di un Welfare State che favorisce quantitativamente e qualitativamente la sempre più crescente quota di classi anziane e che pesa come un macigno su quelle giovani e in età lavorativa. In sostanza, mentre i giovani dei paesi arabi si sono rivoltati per insufficienza di reddito e per la mancanza di prospettive future, quelli europei stanno vivendo, loro malgrado, sulle prospettive in esaurimento delle classi generazionali più anziane (che però sono parte del problema).

La corsa all’accaparramento delle risorse energetiche è ancora motivo di contrasto tra le grandi potenze. Quanto conteranno ancora le risorse naturali come petrolio e gas, così importanti nell’attuale modello di sviluppo, nella geopolitica internazionale?

L’importanza delle risorse energetiche per un Paese dipende da alcuni fattori: le risorse territorialmente disponibili, la tecnologia utilizzabile, lo sviluppo economico, l’urbanizzazione e la popolazione. A parte quest’ultima, sono tutte variabili dipendenti e determinabili. E’ chiaro che i combustibili fossili rivestiranno ancora un posto di rilievo nella geopolitica energetica dei vari attori internazionali. Ma è altrettanto chiaro che bisognerà investire in maniera lungimirante anche nelle cosiddette risorse rinnovabili. Ciò sia per la finitezza dei combustibili fossili, sia per la maggiore sostenibilità ambientale delle risorse rinnovabili. Comunque, tanto sono maggiori la crescita tecnologica e lo sviluppo economico, tanto ci si orienta generalmente verso risorse meno inquinanti. Oggi i paesi sviluppati inquinano meno dei paesi in via di sviluppo perché c’è una sensibilità ambientale maggiore, tecnologie più moderne e normative stringenti in materia.

rinnovabili

Quanta strada bisogna ancora percorrere per raggiungere modelli su larga scala di sviluppo sostenibile? Quali scenari geopolitici potrebbero realizzarsi se cambiassero i modelli di sviluppo basati sulle energie rinnovabili?

La sostenibilità è sostanzialmente un concetto filosofico. Non c’è un modello assoluto di sostenibilità, ma una tensione verso modelli di sostenibilità. Dipende anche da cosa si intende per qualità della vita e dai valori che soggettivamente vi si associano.. Sicuramente, se non si afferma una cultura della sostenibilità, si può prevedere una rottura geopolitica per l’accaparramento delle ultime risorse. La sostenibilità è una questione culturale, una sfida di educazione civica. Un conto, però, è programmare per tempo, altro è dover realizzare di colpo dei cambiamenti drastici.



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