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Donne e lavoro, la parità è lontana

Siamo seri: pensiamo all’occupazione femminile che è e rimane un problema grande. Due grandi e importanti Fondazioni, La Thomson Reuters e la Rokfeller, autorevoli voci internazionali, hanno pubblicato oggi una ricerca sulle difficoltà nel bilanciare la vita privata con quella lavorativa delle donne che è e rimane il vincolo maggiore oltre alla fatica di sviluppare la carriera, avere un pari salario ed entrare e rimanere nel mercato del lavoro nelle 20 nazioni del G20 compresa ovviamente anche l’Europa.

L’età fa la differenza rispetto alla speranza e alla fiducia di diventare risorse umane “women work”: sotto i 35 anni il 45% delle “ragazze” pensano abbastanza positivo rispetto al fatto che gli uomini non godano di un miglior accesso allo sviluppo professionale e dunque di avere abbastanza pari opportunità; mentre più grandi diventano, più la speranza diminuisce e prendono atto che la diversità di trattamento la fa da padrona. In Italia poi la Ricerca racconta che ben il 57% delle intervistate, sono convinte che gli uomini siano più favoriti, condividendo con le donne Arabe e Sud Coreane intervistate, la consapevolezza che non vi è equità tra lavoratrici e lavoratori. Le italiane primeggiano nella graduatoria negativa e non sono da sole, nel rivelare, se pur ancora con grande difficoltà, di essere sottoposte a molestie sessuali sui luoghi di lavoro, ovviamente tacciono per ovvie paure di ritorsioni.

Siamo poi arrivate in parecchi paesi, in Italia siamo ben il 32%, addirittura ad ammettere, quasi fosse una vergogna, che i figli “intralciano gli avanzamenti professionali”. La parità dunque è lontana, molto lontana, e ricordiamoci sempre che ben il 62% della crescita dell’occupazione in Europa prima della crisi era dovuto a una maggior partecipazione femminile alla forza lavoro. Tuttavia molto del capitale umano potenziale delle donne era ed è, ahimè, ancora, in particolare dopo la grande crisi economica, inutilizzato dal mercato del lavoro. Il lavoro femminile è, infatti, un fattore determinante della cosiddetta “parità di genere” e dell’indipendenza economica delle donne, ma certamente importante anche per l’economia di un Paese nel suo complesso.

Un recente studio dell’Ocse dimostra, non a caso, che dimezzare il divario di genere nel mondo del lavoro potrebbe portare a una crescita del Pil di ben il 6% entro il 2030. Ma siamo un po’ stanchine di sentircelo dire paternalisticamente senza poi dare avvio a politiche serie e concrete.

E’ noto, infatti, come i livelli occupazionali, e le relative dinamiche, delle donne siano, ovviamente, strettamente collegati alla maternità, che è e rimane un grande valore sociale. Ma evidentemente non per tutti. Ce lo diciamo da tanto e troppo tempo, ma pare che solo le politiche di protezione possano essere concepite come strumento da adottare, come se con la maternità finisse il valore sociale delle donne. Invece la questione prima per l’aumento della partecipazione femminile alla forza lavoro è la compatibilità dei carichi familiari, in particolare quelli legati ai figli piccoli, e il lavoro di cura che non sono solo i figli piccoli, che non possono essere solo sul groppone femminile.

La commissione Europea il 15 agosto- zitta zitta- ha ri/lanciato l’ennesima ROAD MAP proprio per sviluppare politiche attive per l’entrata e la permanenza delle donne, tutte, nel mercato del lavoro, compresi i congedi parentali, la flessibilità lavorativa, la bilateralità e il welfare familiare.

Per tutti uomini e donne. Ed è bene sapere che la situazione è molto varia in Europa: vi sono paesi come la Germania, la Finlandia, il Regno Unito, in cui le donne hanno normalmente elevati tassi di occupazione, ma si registrano bassi tassi di partecipazione al mercato del lavoro solo per le madri di bambini piccoli. Invece in Svezia, Danimarca e Slovenia le giovani madri, bilanciano bene lavoro e famiglia. Cerchiamo allora di capire come aggiustare il tiro anche da noi senza continuare a flagellarci inutilmente e rimboccandoci le maniche per smuovere chi ci governa.



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