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Cosa succede in Iran dopo l’accordo sul nucleare

L’accordo sul nucleare tra l’Iran e i 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) avrà una ricaduta economica positiva sulle finanze (disastrate) di Teheran. Questo spiega l’euforia dell’opinione pubblica persiana, alle prese con tassi elevati di disoccupazione e di inflazione. Ma l’accordo avrà altrettante ripercussioni sulle oscillazioni del prezzo del greggio, sugli equilibri del Medio Oriente e sul rapporto tra Teheran e Washington.

Ne hanno parlato ieri al Centro Studi Americani, in occasione di una tavola rotonda organizzata dall’Istituto per gli studi di politica internazionale, Paolo Magri, direttore dell’Ispi, Roberto Toscano, per anni ambasciatore italiano in Iran, il docente Pejman Abdolmohammadi e il direttore dell’Institute for Global Studies, Nicola Pedde.

La dimensione economica ha rivestito un’importanza fondamentale per la conclusione e l’attuazione dell’accordo secondo Paolo Magri che, citando un recente rapporto dell’Ispi, ha spiegato come l’economia iraniana soffra di problemi strutturali quali un’elevata disoccupazione (soprattutto giovanile), un tasso di inflazione al 15% annuo (in passato è arrivato al 50%), difficoltà ad attrarre investimenti esteri e un mastodontico peso del settore pubblico, in particolare del comparto legato alla Difesa. L’accordo permetterà da subito l’affluenza della liquidità e dei beni finora bloccati in banche straniere sotto il peso del regime sanzionatorio (per un capitale complessivo stimato tra i 20 e i 180 miliardi di dollari): una boccata d’ossigeno che spiega il vasto supporto popolare all’intesa. Inoltre, l’Iran è il secondo Paese al mondo per riserve di gas e di petrolio e un suo ritorno sui mercati internazionali potrebbe contribuire a un abbassamento del prezzo del greggio (già in calo), anche se gran parte delle risorse naturali rimane da valorizzare, e la cosa richiederà ingenti investimenti e ammodernamenti degli impianti.

Teheran non è solo in difficoltà economica, ma anche meno rivoluzionaria di quanto è comunemente percepita. “I regimi rivoluzionari – ha spiegato l’ambasciatore Toscanofaticano a rinunciare alla loro identità anche quando la storia li costringe a modificare orizzonti temporali e progettualità. Ormai nell’azione esterna dell’Iran l’elemento religioso sciita non è più così rilevante; il primo obiettivo è l’interesse nazionale. I Paesi sunniti del Medio Oriente, in primis l’Arabia Saudita, hanno una politica estera ben più islamica di Teheran”. Tra gli esempi di questo pragmatismo c’è il silenzio iraniano sui regolari massacri di sciiti in Pakistan; oppure la scelta di Teheran di interloquire in Afghanistan con gruppi culturalmente persiani, ma non sciiti; o ancora il Libano, dove l’Iran intrattiene rapporti con Hezbollah, sciita, ma anche con Hamas.

Gli effetti dell’accordo si faranno sentire anche sugli equilibri interni iraniani. “La Repubblica islamica non è una dittatura monocratica bensì un regime peculiare, un sistema ibrido con un certo grado di flessibilità”, ha sottolineato Pejman Abdolmohammadi, docente alla John Cabot University e ricercatore alla London School of Economics.

La guida suprema, l’Ayatollha Khamenei, ha una responsabilità nei confronti della struttura di potere e svolge un ruolo di mediatore tra fazioni diverse: conservatori, pragmatisti (vicini all’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani) e riformisti (vicini a loro volta a un altro ex presidente, Mohammad Khatami, nonché aderenti più stretti al pensiero della prima guida, Khomeyni). Non bisogna poi trascurare i Pasdaran, le guardie rivoluzionarie, che si sono gradualmente introdotte nei gangli dell’economia e della politica, fino a diventare più potenti del clero. “È dunque un’oligarchia a dominare la scena pubblica – spiega Abdolmohammadi non vi è possibilità concreta che il flusso di liquidità sbloccato dall’accordo sia destinato al settore privato, sarà invece spartito tra i vari gruppi di interesse”.

Questo complesso intreccio di tendenze contrapposte spiega anche i limiti della flessibilità del regime, esemplificata dalla sua totale chiusura sul alcune questioni come la sicurezza, l’alleanza con la Russia di Putin e la vicinanza alla Cina. “Proprio questi limiti ci fanno domandare fino a che punto l’apertura sul tema del nucleare in politica estera sia sostenibile dal sistema di potere iraniano: le instabilità e le lotte intestine si ripercuoteranno anche sul futuro dell’accordo”, ha specificato l’accademico.

Da non trascurare, infine, la svolta che l’accordo segna nei rapporti tra Iran e Stati Uniti, pessimi fin dalla rivoluzione del 1979. “L’assenza di un interlocutore che rappresenti il variegato sistema iraniano nella sua interezza costituisce la principale difficoltà negoziale per Washington”, ha puntualizzato Nicola Pedde. L’accordo è stato fortemente voluto dall’amministrazione Obama e da una componente importante del settore americano della Difesa e dell’intelligence, che vi vede un cambiamento fondamentale nella gestione della sicurezza in Medio Oriente, un’area in cui si è rivelato impossibile dare seguito alle politiche avventate intraprese tra il 2001 e il 2003.

“Ma così come una fazione del Congresso cerca di affossare l’accordo, anche a Teheran si annidano gli oppositori”, ha spiegato Pedde. La portata economica della rimozione delle sanzioni, ad esempio, tocca la componente della Difesa dell’Iran, in buona parte in mano ai Pasdaran. Trentasei anni di embargo hanno sviluppato un’autosufficienza dell’industria iraniana, in particolare nel settore della Difesa: l’apertura alla concorrenza e il venir meno della minaccia del ‘grande satana’ (termine con cui la retorica khomeinista bollava gli Usa e l’Occidente) sgonfierebbe la domanda in questo settore minacciando la rendita economica di un potente gruppo di interesse.


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