Quello che segue è il testo di “Oikonomia”, rubrica settimanale di Marco Valerio Lo Prete (vice direttore del Foglio) su Radio Radicale. Qui potete ascoltare l’audio.
Ho già passato in rassegna le tesi dei pensatori “open borders” americani, cioè di quegli intellettuali, soprattutto libertari e liberisti, che suggeriscono l’abolizione delle frontiere come migliore politica per gestire l’immigrazione. L’interesse di questa posizione radicale, anche per il dibattito europeo, è nell’uso massiccio degli strumenti dell’economia e della statistica per studiare l’impatto dei flussi in ingresso. Secondo Bryan Caplan, della George Mason University, e alcuni suoi allievi, annullare qualsiasi ostacolo “burocratico” alle migrazioni tra stati nazionali farebbe raddoppiare il pil del pianeta (come se ai tassi attuali sommassimo 23 anni di crescita al 3 per cento), ridurrebbe drasticamente la povertà, favorirebbe l’innovazione consentendo l’allocazione di persone lì dove servono, e infine incentiverebbe legami tali da sconsigliare guerre fra stati.
E’ sufficiente dunque sbarazzarsi dei confini per vedere all’opera meccanismi di mercato di cui tutti, paesi d’origine e di destinazione, beneficerebbero? In realtà tra gli stessi libertari non si minimizzano gli effetti politico-culturali di tale eventuale scelta.
Nathan Smith, economista della Fresno Pacific University, ha ragionato di recente sull’impatto politico dell’ipotetica svolta “open borders”. I sondaggi Gallup dicono che quasi 200 milioni di persone da tutto il mondo oggi si vorrebbero trasferire negli Stati Uniti (che di abitanti ne hanno 320 milioni). Ma se il numero di immigrati superasse le attese, in ragione delle facilitazioni connesse all’abbattimento di ogni frontiera nazionale – scrive Smith – “non ritengo che il sistema politico americano sarebbe sufficientemente robusto per assorbirli tutti e rimanere identico a se stesso”. “Alcuni ideali americani si eclisserebbero perché la loro applicazione diventerebbe sempre più difficile, per esempio l’uguaglianza di opportunità per tutti, la rete di assistenza sociale, il principio ‘una testa-un voto’ o quello di non-discriminazione sul posto di lavoro”.
I cittadini americani continuerebbero a ritenere “giusti” tali princìpi, ma l’“inondazione” di nuovi arrivati causerebbe una transizione politica simile a quella che – sulla scorta dell’espansione territoriale e quindi demografica – trasformò la Repubblica romana in un Impero, o che portò all’Impero inglese del XVIII secolo. Considerato che qualche centinaio di milioni di nuovi arrivati, nell’arco di un ventennio, non otterrebbero subito la cittadinanza, ecco che la Roma o la Londra imperiali tornerebbero d’attualità. Ovvero sistemi con diritti fondamentali come libertà d’espressione e di credo garantite, diritto di proprietà tutelato, istituzioni elettive funzionanti per la minoranza composta di “cittadini”, e con una governance caratterizzata da “improvvisazione ed espedienti talvolta autoritari” per la popolazione nel suo complesso.
Secondo l’economista di Fresno, in difesa di un regime politico misto di questo genere sarebbe utile resuscitare le ragioni di Edmund Burke, per il quale la capacità di generare prosperità e assicurare la giustizia sarebbero preferibili alla mera logica delle maggioranze aritmetiche delle democrazie contemporanee. Per Smith, è plausibile che i tribunali pubblici sarebbero all’improvviso oberati dal numero di cause, che le forze dell’ordine diverrebbero incapaci di reagire alle lievitate richieste di intervento, e che la segregazione geografica di comunità etniche e religiose sarebbe da mettere in conto. A quel punto i meccanismi di mercato e di diritto privato tornerebbero in auge, sempre in presenza di un regime politico “misto” in stile Impero romano. L’economista Smith, secondo cui i diritti fondamentali restano più importanti dei meccanismi democratici contemporanei, si dice nonostante tutto ciò favorevole al superamento dei confini.
Chi arriva a conclusioni diametralmente opposte, partendo da dubbi simili, è Hans-Herman Hoppe, filosofo tedesco addottorato in Germania con Jürgen Habermas, poi trasferitosi nel 1986 in America e folgorato dal libertarianism di Murray N. Rothbard. Il pensatore anarco-capitalista, pur d’accordo in principio con le tesi “open borders”, solleva tre obiezioni. Innanzitutto – scrive nel suo libro “Democrazia: il Dio che ha fallito”, il concetto di “ricchezza” e “benessere” è soggettivo, ergo un aumento del pil globale non può diventare l’argomento passepartout per liberalizzare i flussi di persone: “Giacché qualcuno potrebbe preferire avere un tenore di vita più basso in cambio di una maggiore distanza tra sé e il prossimo, piuttosto che godere di un livello di vita più elevato al prezzo di una maggiore prossimità agli altri”.
La seconda obiezione risponde a quanti notano una naturale sintonia tra il sostenere la libertà degli scambi economici e la libertà totale degli spostamenti di persone. Risponde Hoppe: “Non vi è nessuna analogia tra libero scambio e libera immigrazione, e restrizioni al commercio e all’immigrazione. (…) Mentre un soggetto può migrare da un luogo all’altro senza che nessun altro lo voglia, merci e servizi non possono essere inviati da una parte all’altra senza che chi spedisce e chi riceve siano d’accordo”.
Si arriva così alla terza obiezione, quella più radicale. Riguarda la “proprietà” dei territori su cui le migrazioni hanno luogo. In una società “anarco-capitalista”, come la vorrebbe Hoppe, “tutta la terra è di proprietà di individui privati, comprese tutte le strade, i fiumi, gli aeroporti, i porti e via dicendo”. In tale situazione “non vi è distinzione netta tra ‘locali’ (ossia cittadini del posto) e stranieri”; l’immigrazione è possibile solo quando c’è il consenso dei legittimi proprietari della terra. In presenza di un simile ordinamento sociale, “non esiste libertà d’immigrazione o un diritto di ingresso in capo all’immigrante”. Le politiche migratorie cambiano “quando il governo è di proprietà pubblica”. Se il governante democratico assomiglia a un “curatore temporaneo” che vuole massimizzare “denaro e potere”, “in accordo con l’egualitarismo intrinseco della democrazia, dovuto al fatto che ogni individuo dispone del voto, il governante tenderà a perseguire politiche migratorie di chiaro stampo egualitario, ossia non discriminatorie”.
Quando si tratta di immigrazione, dunque, poco importa che entrino nel paese “vagabondi o produttori” – scrive Hoppe – anzi, “vagabondi e individui improduttivi potrebbero essere i residenti e i cittadini preferiti, in quanto si tratta di categorie che creano il maggior numero dei cosiddetti problemi ‘sociali’ e i governanti democratici prosperano proprio grazie all’esistenza di tali presunti problemi”.
Il filosofo sostiene che “il risultato di questa politica di non-discriminazione consiste in un’integrazione forzata, ossia nell’obbligare a una convivenza forzata, con masse di immigrati di più basso livello, i proprietari del paese che, se avessero potuto scegliere, avrebbero mostrato una maggiore oculatezza e avrebbero scelto dei vicini alquanto diversi”. Altro che “immigrazione libera”, quella che si realizza in America e in Europa occidentale, secondo Hoppe, è “integrazione forzata bella e buona, e l’integrazione forzata è il prevedibile esito della regola democratica di concedere un voto a chiunque”. Per correggere questa tendenza, Hoppe propone misure correttive e preventive di tipo contrattuale.