Il sermone laico di Gramellini sulla Scuola come ascensore sociale dimostra l’inadeguatezza di certa parte dalla cultura italiana, fatta di pensatori, giornalisti e sedicenti intellettuali nel cogliere e decifrare i dettagli di una realtà che sta tutta da un’altra parte.
Nella parole di Gramellini, che tracimano di retorica e buonismo benpensante, c’è la siderale distanza tra il Nord e il Sud d’Italia. Non a caso lo studente, figlio di un boss in carcere e rifiutato da quattro presidi, è pugliese mentre l’esimio osservatore si divide tra Torino e Milano.
Una distanza che non è quella resa impervia dalla mancanza di una buona autostrada. Nella fattispecie la Milano-Torino, perché la Salerno-Reggio, a confronto, è un highway californiana. Una distanza che è culturale, sociologica. Etnografica. Perché, mentre tutti ci affanniamo a cercare di interpretare un mondo sempre più complicato che ci entra in casa come l’acqua e con il quale dobbiamo fare i conti per via di questa buttanissima globalizzazione, il paese in cui viviamo dimostra di non essersi mai saldato. Come un vaso di porcellana, finito in pezzi, e sulle cui parti è stato applicato il mastice sbagliato.
Se Gramellini avesse letto La Camorrista di Francesco Palmieri saprebbe che chi è nato dentro una famiglia di mafia ha il sangue macchiato per sempre. E non c’è nessuna impostura laica come la Scuola, il giardinetto ben curato, la luce a led o il pannellino solare che lo possa salvare dal suo destino.
Anche se il giovane mostrasse la più immacolata delle indoli e riuscisse a vivere il suo futuro facendo della sua famiglia il più lontano dei passati, non potrebbe mai trovare alcuna dialisi per quel suo sangue imbrattato. E, un giorno, secondo la liturgia della tragedia, il tempo del sangue incrocerà inevitabilmente il tempo della vita. Voi del Nord chiamatela omertà la lingua che non capite.
I sermoni laici in un’Italia divisa
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